New-technologies e pratiche di rete

Intervista al collettivo InfoFreeFlow

Privacy, Web 2.0, nuove forme di produzione di sapere, Social Network, sono parole e concetti che ormai si visualizzano quotidianamente sui nostri schermi; segni di un cambiamento nel modo di concepire e praticare la rete. Quali le nuove sfide, le nuove possibilita' e quali invece i pericoli e i tranelli che ci si presenteranno davanti? Ne abbiamo parlato con i ragazzi del collettivo InfoFreeFlow, promotori di diversi incontri in merito.
a cura di Gualtiero Manin

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iff2 Info Free Flow come nasce, quando e con quali finalita? Che percorso avete seguito e quali contenuti avete analizzato nelle due precedenti
edizioni?

Info Free Flow ha avuto la sua prima edizione nel dicembre del 2006 nel Laboratorio Occupato Crash! di via Zanardi 48.
L'idea che ci stava dietro era piuttosto semplice: creare un momento di incontro e contro – informazione a proposito di tutta una serie di tematiche legate alle controculture digitali che hanno sempre fatto parte del background e del DNA politico di Crash.
Ci sembrava importante creare un ambito di discussione ( e laddove possibile anche di pratica ), accessibile ed aperto: quindi non tanto un appuntamento per gli addetti ai lavori o a chi comunque già mastica i linguaggi della rete e delle tecnologie digitali ( per questo target di persone esistono già eventi come hackmeeting ), quanto piuttosto un momento di promozione dell'uso critico dei media e delle tecnologie digitali capace di creare condivisione e di confronto anche tra
soggetti che potrebbero quasi apparire opposti ed inconciliabili ( tipo uno smanettone ed un cantante folk modenese per fare un esempio ) ma che in realtà non lo sono affatto.

I tronconi di discussione che abbiamo tentato di sviluppare e che spesso si sono intrecciati in quest'anno e mezzo sono stati:

0#Quello dell'autodifesa digitale della privacy a fronte delle misure sempre più pervasive di sorveglianza e di controllo sociale presenti oggi in rete.
Quali sono i dispositivi di sorveglianza e controllo sociale attivi fra le pieghe della rete? Su quali costrutti ed architetture ( hardware, software, giuridiche e culturali ) si basano ? Quali sono i pretesti su cui esse si fondano e quali sono le vere motivazioni per cui sono diventati una costante del web e della rete nella sua totalità?
Sono tutte domande a cui abbiamo sentito il bisogno di darci una risposta.
Oggi non si può continuare a parlare di “impatto delle tecnologie digitali” sulla società: i due elementi si sono completamente fusi e l'aumentata pervasività della sorveglianza, nonché le nuove forme di governo biopolitico che è possibile esercitare sugli individui anche grazie ad esse, non può lasciarci indifferenti.

1#Quello dello sviluppo e diffusione di saperi viralmente liberi ( potremmo dire liberanti ) e sottratti dalle maglie della proprietà intellettuale.
Anche qui ci è sembrato interessante sviscerare in vari momenti ed in differenti campi quella che è l'intima essenza oppressiva dei meccanismi del capitalismo informazionale e la vera funzione monopolistica e di espropriazione di quel bene comune che è il sapere, ai danni di chi realmente lo ri/produce, ovvero, tutti noi.



Quali contenuti avete preso in considerazione invece nell'edizione di
quest'anno e perché?

Per l'appunto abbiamo continuato seguendo ed approfondendo le tematiche trattate negli scorsi anni.
La prima giornata, che ha avuto come cornice l'aula c autogestita presso la facoltà di scienze politiche, è stata tutta incentrata sulla questione del diritto di autore vista da differenti prospettive in differenti campi del sapere, nel tentativo di capire anche come si sviluppano determinati mercati della conoscenza e come cambia il concetto stesso di sapere in questo contesto che lo trasforma in merce.

Durante la seconda giornata invece abbiamo presentato il libro “Consumate il futuro” di Emanuela Povia, edito per il progetto editoriale diy “Collane di ruggine”: un libro sulla poetica di Ballard e sul rapporto uomo – tecnica visto dagli occhi dello scrittore cyberpunk.

La terza giornata invece è stata una giornata un pochino più smanettona.
Abbiamo giocato con il wireless sperimentandone gli usi informali che se ne possono fare: auto-costruire antenne, craccare le reti wireless, flashare i router e via dicendo. Tutti argomenti che, come puoi immaginare, ci sono abbastanza cari data la situazione di nomadismo cui siamo costretti dalle politiche repressive della giunta Cofferati in fatto di spazi sociali. Internet è un mezzo essenziale del nostro agire politico quotidiano e sgombero dopo sgombero ne abbiamo sempre avuto bisogno, arrangiandoci come potevamo ;-)

Il concetto di fondo è però sempre stato lo stesso delle altre edizioni: promuovere un uso critico della tecnologia e dei media digitali, provando a renderli accessibili a qualsiasi utente con qualsiasi livello di alfabetizzazione informatica senza cadere in stupidi elitarismi, facili tentazioni tecno luddiste o disarmante acriticità rispetto alla natura dei mezzi utilizzati.



Proprietà intellettuale e copyright, una necessaria medicina da ingurgitare, o un diga al libero flusso creativo?

È tautologico sostenere che la proprietà intellettuale svolga effettivamente il ruolo di benzina dei “motori intellettuali” sociali e che senza di essa le opere dell'ingegno smetterebbero di proliferare e diffondersi.
Si tratta di un'affermazione, che è diventata comunemente accettata grazie a 30 anni di propaganda martellante a senso unico.

Anche dando solo uno sguardo superficiale ai meccanismi del capitalismo applicato all'informazione ci rendiamo subito conto del perché.
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Il ciclo tipico della produzione capitalista

concezione --> produzione --> distribuzione --> consumo

viene sostituito da

concezione --> riproduzione delle informazioni --> produzione --> distruzione --> consumo

Questo cosa significa? Significa che la riproduzione prende il posto della produzione la quale ha fondamentalmente un ruolo marginale ( documentazione e packaging ).
Nell'industria del software come in quella degli OGM, la produzione consiste nella copia perfetta di un oggetto informatico e biologico e nella produzione fisica di un “supporto” per la sua diffusione.
Gli introiti delle grandi multinazionali dell'informazione sono quindi basati sul totale controllo della distribuzione dei supporti e dell'uso delle informazioni in essi contenute che sono appunto gli oggetti della legislazione della proprietà intellettuale ( e se per esempio guardiamo i costi della musica o dei libri essi sono dovuti in gran parte alle spese di distribuzione, non finiscono certo nelle tasche di artisti o scrittori ).
In questo senso la necessità del capitale di mantenere un controllo totale sui flussi informativi e di monopolizzarne intere fette di mercato ha modificato la concezione del sapere in un'ottica marcatamente privatistica ( anche laddove questa concezione era impensabile fino a pochi decenni fa ), causando tutta una serie di costi sociali non da poco.

Pensiamo al mondo della ricerca scientifica: da sempre uno dei principi che l'hanno contraddistinto è stata la circolazione delle scoperte e delle conoscenze affinché potessero essere verificate dalla comunità. Questo meccanismo oggi è stato distrutto dall'editoria scientifica che con l'imposizione del copyright sulle riviste di settore, il tessuto connettivo della comunità scientifica, e di conseguenti altissimi costi, impedisce di fatto l'accesso a queste pubblicazioni a moltissime università ed ai singoli ricercatori, impossibilitate a sobbarcarsi queste spese.
Sempre in questo campo anche la corsa al brevetto ha avuto dei risvolti negativi a livello globale: la ricerca è stata frenata (oggi la possibilità di utilizzare una sequenza genetica è legata a doppio filo alla possibilità di poter pagare cifre elevatissime in royalty all'azienda che l'ha brevettata ), l'università è stata ripensata sotto forma di impresa ed il suo prodotto, la sua moneta, è diventata la conoscenza che produce.
Gli effetti più devastanti di queste dinamiche poi si vedono nei paesi del terzo mondo su questioni come la salute pubblica: l'internazionalizzazione del regime di proprietà intellettuale, derivanti da accordi commerciali come i TRIPS o i GATT, non permettono la riproduzione di farmaci generici a basso costo, ma obbligano gli stati ( anche quelli più poveri ) ad acquistarne dalle multinazionali che li producono.

Guardiamo invece al mondo dell'editoria: il mercato italiano ( che si può tranquillamente definire un oligopolio data la posizione affermata ed inattaccabile di poche “eminenze grigie” ) produce ogni anno la pubblicazione di CINQUANTACNQUEMILATESTI. Di questi la maggior parte vende meno di due copie. A prima vista non ci sembra una grande stimolazione del flusso creativo ma semmai il contrario: una vera e propria gabbia ( rigidamente architettata sulle esigenze del mercato ) per la circolazione delle idee, un' impossibilità di autosostentamento ed un relegamento della figura di operatore culturale ad un ambito sempre più elitaristico.

Di contro per fortuna ci sono esperienze positive anche in questo campo come l'ensemble narrativo KaiZen: il loro ultimo libro “La strategia dell'ariete” pur essendo stato pubblicato sotto copyleft ha avuto una diffusione vastissima ( 7000 copie vendute ).
Inoltre KaiZen è una realtà che è stata capace di demolire, o quanto meno ha mostrato la mistificazione, di uno dei pilastri ideologici della proprietà intellettuale: l'idea dello scrittore solitario e geniale che deve possedere ciò che ha prodotto e rivendicarne la totale paternità. Uno dei progetti che i KaiZen portano avanti è Romanzo Totale, un sito in cui i membri del collettivo pubblicano le loro produzioni e le lasciano alla mercé ed della continua modifica e rielaborazione degli utenti che vogliono metterci le mani sopra.
Andrea di gruppo Laser, ha definito questa pratica come “la strategia del cavallo per battere il copyright”: un racconto, una storia, un romanzo prodotti in copyleft proseguono nella loro rielaborazione in rete per poter essere poi pubblicati in copyleft, per poi essere rielaborati ed ancora ripubblicati. Con il copyright questo gioco non si può fare.
Secondo noi inoltre è interessante questa visione del sapere perché rifugge dalla visione di un opera dell'ingegno come di un semplice artefatto/oggetto cartaceo/merce ( nel caso del libro ) e la ricolloca in quello che è il suo contesto originario fatto di condivisione e di comunanza delle idee.

Se poi volessimo prendere il problema anche dal punto di vista del mercato ci rendiamo facilmente conto che la chiusura sulle posizioni del fondamentalismo della proprietà intellettuale è controproducente anche per il mercato stesso: le reti p2p e la loro diffusione capillare a livello sociale, potrebbero avere degli effetti positivi sulle vendite, abbassando moltissimo i costi di promozione. Qualcuno questo l'ha capito, qualcun altro no. Ed il fatto che i sistemi di condivisione siano fortemente osteggiati ( in primis proprio dalle major dell'entertainement ) è un chiaro segno della volontà oscurantista di voler continuare a privilegiare modelli di business vecchi e più redditizi per chi ha costruito e controlla i monopoli dell'informazione.
Questa situazione è resa sempre più contraddittoria anche dal fatto che le stesse major hanno finalmente ammesso che i dati sulla “pirateria” ( che limiterebbe le vendite e danneggerebbe gli artisti ), dati che sono stati una delle giustificazioni principali per cui la rete è stata posta sotto attacco in questi ultimi anni, sono stati ampiamente gonfiati.

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Parliamo di Social Network, su cui avete organizzato anche un incontro. Per
alcuni infrastrutture come Myspace o Facebook sono dei grandi contenitori
di relazioni sociali che catalogano minuziosamente le pratiche on-line
delle persone che ne usufruiscono. Per altri, invece, il valore intrinseco
e monetario di tali infrastrutture dipende dal numero di persone e dalla
soddisfazione emozionale che riescono a dare. In questo senso si può dire
che siamo di fronte a "assets" estremamente ambigui e rischiosi?
Mi spiego,se da una parte Murdoch può accedere a tutta una serie di informazioni che producono valore dall'altra e' strettamente legato alla soddisfazione e all'investimento emotivo che le persone veicolano verso Myspace. Non e' questo un esempio di controllo dell'"utenza" nel medesimo tempo di sudditanza da essa?

La domanda è interessante e crediamo debba avere una risposta il più
possibile esaustiva.
Per rispondere però è necessario dare uno sguardo ampio alla natura dei
social network, in particolare modo per quanto riguarda il loro aspetto economico.
In questo senso vorremmo riportarti un po' l'esperienza e le riflessioni di AND, un ragazzo che abbiamo conosciuto all'hackmeeting a Pisa e che ha tenuto all' ultima edizione di IFF un workshop proprio sulla questione dei social network.

La prima domanda che secondo noi è sempre bene porsi in questi casi è: a
chi appartiene ( giusto per fare un esempio ) Myspace? La risposta è
Murdoch, il magnate delle telecomunicazioni, da sempre vicino alla
corrente neo – con americana (quella di Bush per intenderci ) i cui
network ( tutti facenti riferimento alla multinazionale Newscorp ) nella
loro totalità appoggiarono l'invasione dell'Iraq che diede inizio alla
seconda guerra del golfo.
E Youtube invece, da chi è stata acquistata nell'ottobre del 2006? Da
Google.

È lecito porsi allora una seconda immediata conseguente domanda: per
quale motivo organizzazioni di questo tipo ( importanti multinazionali
dell'informazione globale votate al profitto ) creano o acquistano per
cifre non certo irrisorie, piattaforme di comunicazione, come
Myspace o Youtube? Piattaforme che a prima vista potrebbero quasi sembrare un pericolo per chi detiene grossi capitali basati sulla proprietà intellettuale e
potere mass-mediatico dovuto al controllo capillare dei mezzi di informazione del pianeta.
Questa secondo risposta va cercata nei tratti caratterizzanti del
cosiddetto web 2.0 dove ( e qui citiamo testualmente le parole di AND )
“a nuove forme di cooperazione corrispondono nuove forme di
appropriazione privata “
: termini che se accostati possono generare a
prima vista confusione ed ambiguità.
E questa ambiguità la ritroviamo anche nelle caratteristiche tecniche
sui cui i social network sono costruiti: piattaforme di comunicazione
totalmente decentralizzate e servizi web utilizzabili senza bisogno di
pagare o scaricare alcun software. Tutto questo però in combinazione con la
presenza di database centralizzati che grazie ad un esteso sistema di
sorveglianza, insito nell'architettura stessa delle piattaforme ( che utilizzano largamente web-cookie e script), si nutrono di dati personali degli utenti e delle traccie dei loro comportamenti.
Questa mole enorme di dati viene quindi sottoposta ad un procedimento
tecnico chiamato “data mining” il cui scopo è estrarre informazioni
utili da un insieme amorfo di dati.

In questo modo chi detiene e controlla queste informazioni, queste basi
di dati ha per esempio la possibilità di:

#0 Ottimizzare il prodotto attraverso la conoscenza diretta e
dettagliata delle abitudini e delle pratiche d’uso degli utenti ( per
esempio può essere interessante per l'industria discografica conoscere i
dati relativi alle playlist suonate su myspace per dare forma e creare
in laboratorio il trend musicale della prossima stagione )

#1 Razionalizzare e diversificare l’allocazione di stimoli
pubblicitari, principale fonte di introiti in un contesto di servizi
per la maggior parte gratuiti: ovvero costruire pubblicità ad hoc
relativamente ai gusti ed alle abitudini del singolo utente e farci i
miliardi.

Si verifica, quindi, uno slittamento nel paradigma comunicativo pubblicitario che da uno standard seriale ( tipico dell'industria di massa come l'abbiamo conosciuto fino ad oggi ) passa ad uno personalizzato.
Inoltre in questi network l'utente è un "prosumer" che consuma informazioni ed allo stesso tempo le produce, le categorizza, le diffonde grazie alla ragnatela di relazioni che crea continuamente, aumentandone così esponenzialmente il valore. Valore che però sfugge all'utente che produce i contenuti e finisce nelle mani di chi controlla e possiede quel determinato network comunicativo.
Il risultato finale è quasi paradossale: la cooperazione nella sua dimensione decentralizzata va a creare e rafforzare giorno dopo giorno, clik dopo click, dei monopoli informazionali.
Parafrasando Geert Lovink: il controllo dei click lungo la strada ha reso ancora prevalente il modello tecno-liberista degli anni 90 e dice che chi scrive il software e fornisce le piattaforme comunicative si arricchirà grazie alle masse ignoranti che sono felici di cedere gratuitamente i loro contenuti.
Non solo: il caos della rete in cui oggi più che mai siamo dispersi ci porta a cercare punti di riferimento costanti capaci di orientarci e di permettere di trovare le informazioni che ci interessano. Ma una volta trovati questi punti di rifermento spesso ne diventiamo dipendenti ( pensiamo a Google, che da strumento di ricerca è diventato abitudine ) e ne garantiamo il finanziamento.
E inquadrata in questa prospettiva l'unica forma di asservimento che a
noi sembra di individuare è quella dell'utente che trasforma in merce un
ennesimo rilevante ( oggi più che mai ) segmento della sua quotidianità
( la comunicazione on line ).

Se seguiamo il ragionamento di prima inoltre vediamo anche cadere miseramente il mito per cui i social network possono essere utili per catapultare un artista indipendente nel mainstream: i casi sono rari e si possono tranquillamente considerare più un'eccezione che una regola. Il filtraggio dei contenuti da una qualche visibilità in più ma non è certo sufficiente. I beneficiari sono quasi sempre l'utente finale e soprattutto chi possiede le piattaforme di comunicazione, non chi produce.

Inoltre in questi social network viene fatto un uso massiccio di tecnologie proprietarie che ricadono sia sull'utilizzo delle risorse, che idealmente dovrebbero essere di tutti e sempre disponibili in qualsiasi forma, e sia sugli utilizzatori.
L'esempio migliore, o peggiore dai punti di vista, e' l'abbondante uso nelle pagine web di flash, una "tecnologia" vecchia, ultraproprietaria di Adobe, che rende quasi impossibile fruire del contenuto senza il loro specifico plugin per il browser che usiamo nella navigazione. oltre a questo c'è un discorso di accessibilità.
Non e' scontato che tutti i dispositivi (palmari, cellulari, tablet, pc con software/hardware di qualche anno obsoleto) che accedono a queste risorse "sociali" abbiano questo specifico software installato, ne' tanto meno e' sicuro che possa supportarlo o che esista una versione specifica per quel dispositivo.
Ci sono anche le persone diversamente abili, che riscontrano una
barriera insormontabile nell'accedere a questi contenuti. Senza scendere
nei dettagli, immaginiamo un non vedente, che usa un sintetizzatore vocale ed
altri strumenti per "ascoltare" i contenuti di una pagina. Tutto ciò che appare in queste "scatole tecnologiche chiuse" è per loro del tutto inaccessibile. A meno che non esistano e si usino altri strumenti anch'essi proprietari e quindi a pagamento.
Poi c'è un ultima questione, ed è quella relativa al tipo di approccio
che determinati ( non tutti e non per forza ) social network stimolano
nell'utilizzo del web e della miseria culturale che producono: creazione
di identità sociali basate sull'ostentazione di oggetti culturali,
voyerismo da GF, pulsioni individuali da ego – trip, consolidamento di
pregiudizi e stereotipi, generazione di riduzionismo culturale.
Anche se poi ovviamente questi comportamenti, non trovano le loro radici nel idea stessa di network sociale e nei mezzi tecnici che ne stanno alla base,
ma sono un riflesso del pensiero dominante, figlio ed espressione
dell'organizzazione capitalista della società.
In ogni caso vorremmo essere chiari: non stiamo certo criticando l'idea di rete sociale in se ( che anzi, sotto molti aspetti è simile all'idea di autogestione ) ma il sistema di proprietà di questi media e la volontà di trasformare in profitto le pagine visitate.



Un altro seminario che avete ospitato nella tre giorni era "come aumentare
il disordine in rete" (autistici/inventati), in cui il collettivo autistici
ha presentato la propria piattaforma di blogging, perché, a vostro avviso,
bisognerebbe preferire NoBlogs a qualsiasi altro servizio?

Non è che bisognerebbe preferire NoBlogs ad ogni altro servizio. La questione è diversa: ad ogni strumento corrisponde una o più funzionalità e per determinate funzionalità Noblogs è perfetto mentre per altre no.
Ci spieghiamo meglio facendo anche un esempio pratico.
Se la sera del 21 luglio 2001 un attivista avesse voluto rendere pubblici ed immediatamente accessibili i video delle violenze e della brutalità poliziesca sui manifestanti al G8 di Genova, quali canali di diffusione potrebbe utilizzare? iff4 Certo: Indymedia, Ngvision, Isole nella Rete e NoBlogs. Ma se il suo obbiettivo, la sua necessità, la sua urgenza è arrivare al numero più ampio di persone nel minor tempo possibile allora perché no anche Myspace e YouTube ( che oggettivamente hanno oggi un ampio ed eterogeneo bacino di utenza ).
Il che ovviamente non significa abbandonare l'uso e lo sviluppo delle reti autogestite ma fare un uso tattico degli strumenti che abbiamo a disposizione a seconda degli obbiettivi che ci poniamo nelle diverse situazioni che ci troviamo ad affrontare: la comunicazione politica non può rischiare uno scollamento tra gli obbiettivi che si pone, la sua funzione sociale e gli strumenti che utilizza.
Non solo: potrebbe anche essere un metodo per dirottare i naviganti dai server commerciali sui nostri server autogestiti e far conoscere loro questo mondo, queste isole.
Proprio a partire da quest'ordine di ragionamento abbiamo deciso di creare il blog di Info Free Flow ( http://infofreeflow.noblogs.org )sulla piattaforma di Noblogs perché è un contenitore di blog pensato “per produrre contenuti che contribuiscano a uno spazio di informazione, comunicazione, relazione e iniziativa politica indipendente”: ci sembrava importante dare visibilità e collocare il nostro principale e più immediato strumento di comunicazione in un “network esteso” con cui ci sentiamo politicamente affini e da cui possiamo trarre ed con cui vorremmo poter scambiare idee, esperienze, relazioni, pratiche e conoscenze.
Inoltre NoBlogs è costruito secondo una serie di criteri che non possiamo che condividere e che vediamo come indispensabili per poter dar vita ad una comunicazione effettivamente libera :

-È basato su software open – source ( e questo vuol dire molto anche per la privacy degli utenti che vi scrivono )

-Non tiene alcun log, né traccia delle attività degli utenti e non richiede alcun tipo di dato personale per l'attivazione di un proprio spazio web
È dotato di un design user - friendly anche per il meno alfabetizzato ( informaticamente parlando ) degli utenti. Inoltre sul Autistici/Inventati sono presenti tutta una serie di guide per un uso ottimale del blog, ed un forum con cui si ha la possibilità di confrontarsi con altri utenti e di condividere e discutere in merito a problemi riscontrati nell'uso del proprio blog e ad eventuali soluzioni da mettere in campo.

-È situato all'interno di un network R*esistente come quello di AI, che ha già dato prova della sua robustezza di fronte ad un significativo tentativo di censura ad opera del fanaticamente zelante ex-parlamentare dell'UDC Luca Volonté nel luglio del 2007.

-È totalmente AUTOGESTITA da compagne e compagni, che da anni sono dentro al movimento, verso cui nutriamo la piena fiducia ed ai quali pensiamo di poter affidare tranquillamente parte della gestione dei mezzi che utilizziamo per comunicare.