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Yemen / E’ guerra civile, e già scalpita un nuovo rais

Dal paese dove la primavera araba è degenerata in scontro armato tra fazioni tribali. Il presidente Saleh, ferito, è in Arabia Saudita

06 Giugno 2011 - 09:22

di Carlo Musilli da AltreNotizie

Alla fine sono arrivati i colpi di mortaio. Hanno centrato la moschea del palazzo presidenziale di Sana’a durante la preghiera del venerdì. All’interno c’era Ali Abdullah Saleh, leader dello Yemen dal 1978, che è riuscito a scappare nonostante le ferite. La tv Al Arabiya ha dato la notizia della sua morte, ma presto è stata smentita. Il Presidente in persona ha diffuso un messaggio audio: “Sto bene. Quella banda di fuorilegge ha ammazzato sette persone”.

Insieme al dittatore sono rimasti feriti anche il presidente del Parlamento, quello della Camera, il primo ministro e il suo vice. Sabato le vittime dell’attacco sono salite a otto: il premier Ali Mohammad Moujawar è morto in un ospedale saudita. Anche Saleh è stato affidato alle cure dei medici di Riyadh. L’hanno operato per rimuovergli dal torace una scheggia metallica conficcata in un polmone, appena sotto al cuore. Meno gravi le ustioni sullo stomaco e sul volto.

Secondo Al Jazeera, l’interim della presidenza è stato assunto dal vice di Saleh, Abd-Rabbu Mansour Hadi, che per il momento comanda anche le forze armate. Fonti ufficiali yemenite hanno fatto sapere che il Presidente tornerà in patria entro pochi giorni. Ma il fronte dell’opposizione è determinato ad evitare che questo avvenga.

Nel frattempo i combattimenti si sono spostati dal nord al sud della Capitale. Continui bombardamenti hanno colpito la casa dello sceicco Sadiq al-Ahmar, capo della confederazione tribale degli Hashid, che da un paio di settimane ha sposato la causa dei dissidenti. Sono stati loro ad attaccare il palazzo presidenziale. In risposta, sabato le bombe della Guardia repubblicana, il corpo d’elite dell’esercito yemenita, sono cadute anche sulla casa di un altro leader tribale, lo sceicco Hamid, dirigente del partito islamista Al Islah e fratello di Sadiq. Distrutta anche l’abitazione di un terzo fratello, Mizhij, e quella del più potente fra i generali ribelli, Ali Mohsen.

Nelle stesse ore, secondo fonti militari, sarebbe passato al fronte dei ribelli anche un altro pezzo grosso dell’esercito: il generale Jebrane Yahia al Hashedi. Si tratta del comandante della 33esima divisione blindata dell’esercito, che controlla la vasta regione sudoccidentale del Paese, un’area di collegamento strategico tra l’Oceano Indiano e il Mediterraneo, dove passano le petroliere.

Hashedi ha annunciato la sua defezione dalla città meridionale di Taiz. Qui a fine maggio un sit in di manifestanti era stato disperso a suon di pallottole. Sono morte 50 persone. Ancora oggi le forze di sicurezza sparano con regolarità contro i gruppi che scendono in piazza a protestare. Venerdì si sono registrati altri sei morti. A quel punto i soldati della 33esima divisione si sono rifiutati di continuare a premere il grilletto.

Mentre lo Yemen va a fuoco, il resto del mondo sta a guardare, nemmeno troppo interessato. Il capo della diplomazia europea, Catherine Ashton, ha assicurato che la Ue si sta organizzando per evacuare i suoi cittadini. La Germania ha già chiuso la sua ambasciata. Gli Usa si sono sprecati a chiedere il cessate il fuoco e l’avvio pacifico del trasferimento dei poteri in base al piano stabilito dal Consiglio di Cooperazione del Golfo. Le monarchie arabe, a loro volta, hanno detto di voler riprendere l’opera di mediazione interrotta lo scorso 23 maggio.

Dall’inizio della rivolta yemenita, nel gennaio scorso, sono state uccise circa 400 persone. Di queste, oltre 150 sono morte a Sana’a negli ultimi 10 giorni. Cosa succederà adesso è difficile da prevedere. L’unica certezza è che gli scontri armati continueranno a lungo. Sul piano diplomatico e politico, data la sonnolenza degli Stati Uniti e l’assoluto menefreghismo dell’Onu, la comunità internazionale spera nella mediazione dell’Arabia Saudita.

Ryiadh teme il rafforzarsi di Al Qaeda nella Penisola Arabica, che in passato ha tentato di assassinare diversi membri della famiglia reale saudita. Ma soprattutto la ribellione yemenita si concentra nei territori settentrionali del Paese, pericolosamente vicini alla frontiera con l’Arabia. E il contagio della rivolta sciita è più temibile della peste nera.

Per riprendere la strada della trattativa, nei prossimi giorni alcuni rappresentante degli Ahmar potrebbero atterrare a Riyadh. Con ogni probabilità le parti cercheranno di sedurre il grande arbitro saudita affermando la propria autorità, la propria capacita di controllo del territorio. Saleh continuerà a ripetere che, nonostante tutto, la maggior parte dell’esercito è ancora fedele a lui. Ma non sarà sufficiente. Nessuno ha più rispetto del vecchio e malridotto Presidente. In un cablo pubblicato da WikiLeaks, il ministro degli Interni saudita ha scritto ad alcuni diplomatici americani che ormai “al leader yemenita la situazione è completamente sfuggita di mano”.

D’altra parte gli Ahmar sono dei semi-sconosciuti. Lo sceicco Sadiq è un politicante d’esperienza, ma non ha mai ricoperto alcun incarico pubblico. Sono i soldi e la leadership tribale a dargli credibilità, al punto che perfino molti degli studenti da cui è partita la rivolta vedono in lui un’alternativa accettabile a Saleh. Se qualcosa è cambiato negli ultimi giorni, oltre all’escalation di violenza, è proprio il ruolo dell’Arabia Saudita. Accogliendo il dittatore yemenita nei propri confini, il più importante fra i Paesi arabi si é definitivamente assunto delle precise responsabilità. E a Washington hanno tirato un bel sospiro di sollievo.