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Via Gobetti, 23 dicembre 1990: i killer della Uno Bianca uccidono al campo nomadi

Sono passati 26 anni dalla strage all’ex Fornace Gallotti. Uno degli episodi più truci legati alla banda dei fratelli Savi, una delle date meno ricordate della scia di sangue lasciata dagli ex poliziotti.

23 Dicembre 2016 - 11:39

Presidio Gobetti - Foto Michele Lapini/Resistenze in CirenaicaDomenica 23 dicembre 1990, dai lanci di agenzia si apprende una tragica notizia: “Assalto al campo nomadi di via Gobetti, alla periferia di Bologna, alle 8,15. Rodolfo Bellinati e Patrizia Della Santina sono rimasti uccisi. Feriti in modo grave: Sara Bellinati, una bambina di appena sei anni e Lerje Lluckaci, 34enne slava. Secondo una prima ricostruzione gli assalitori sarebbero giunti al campo a bordo di due auto, una Fiat Uno bianca ed una Lancia Y10. Dalle auto sono scesi due uomini, a volto scoperto e armati di pistola e mitra. Hanno sparato dagli otto ai quindici colpi, quattro dei quali fatali a Patrizia Della Santina. E’ stato invece un colpo sparato dal mitra ad uccidere Rodolfo Bellinati. Alcuni nomadi testimoniano la presenza nel campo di un uomo con un giubbotto poco prima dell’arrivo delle auto”.

Pochi giorni dopo la sparatoria, un’abitante del campo, presente al momento dell’agguato, fu chiamata in Questura a testimoniare. Tra i poliziotti presenti in Piazza Galileo riconobbe uno degli aggressori: era Roberto Savi, ma nessuno le diede ascolto. Tutti uguali davanti alla morte, ma non davanti agli inquirenti: la testimonianza portata in quell’occasione fu ascoltata come si fa con un bambino che sostiene di aver visto il lupo mannaro.

Ai funerali dei due nomadi uccisi dai killer della Uno Bianca erano presenti poche centinaia di persone. Fu una vergogna per Bologna… In quel momento affiorò visibilmente l’indifferenza sociale e il razzismo perbenista alla petroniana. E il freddo di una giornata terribile e triste si trasformò subito in gelo: forse per i più non valeva rendere omaggio a una coppia di zingari “brutti sporchi e cattivi”.

La prima commemorazione che si tenne un anno dopo aveva come titolo “per non dimenticare”. Era un’esortazione già sentita in precedenza, per la strage del 2 agosto alla stazione, per i 12 studenti uccisi al Salvemini. Un impegno civile ridotto, nel migliore dei casi, a un semplice rituale. In effetti, a un anno di distanza, furono molto pochi quelli che si ricordarono di Rodolfo e Patrizia. Anzi, in quei 365 giorni, l’odio per gli zingari, ormai percepiti come uno “sciame di cavallette”, stava aumentando a dismisura. Il popolo nomade veniva ormai percepito come qualcosa di ingombrante, come un pericolo. Questo sentimento diffuso influenzò anche il padre di una delle due vittime che, dopo quel 23 dicembre maledetto, propose alcune volte questa tesi: “Gli assassini si sono sbagliati. Hanno colpito noi al posto di altri, sparando nel mucchio, ma non avevamo fatto nulla. La gente del quartiere ci ha sempre rispettati. I killer volevano colpire gli slavi perché, forse, avevano compiuto qualche torto. Le persone, però, non distinguono più: siamo diventati tutti uguali. Non esiste più alcuna differenza tra noi italiani e gli slavi… Non sappiamo nulla sui responsabili dell’omicidio, neppure la magistratura è riuscita finora a scoprirli. Erano addestrati militarmente. Mio figlio è stato ucciso con un colpo alla testa” (iintervista tratta da Mongolfiera del 20 dicembre 1991).

All’epoca, gli investigatori, tra le varie ipotesi ne formularono una che legava gli assalti agli accampamenti di Santa Caterina di Quarto (10 dicembre 1990) e di via Gobetti (23 dicembre 1990), riconducendoli alle attività illegali dei nomadi slavi. Dall’ottobre ‘89 al dicembre ’90, si diceva, erano stati compiuti in città molti furti di appartamenti. In quel periodo erano arrivati in Emilia-Romagna nuclei di slavi, provenienti da Torino e Roma, approdati in Italia alla fine degli anni ’70.

Quell’ipotesi, però, non spiegava come mai le stesse armi dei raid erano state utilizzate all’Ipercoop (il 22 dicembre 1990, due immigrati neri feriti) e al Pilastro (il 4 gennaio 2001, tre carabinieri uccisi).

Solo nel 1994, si scoprì che dietro ai ventiquattro morti, ai centodue feriti, alle centotré azioni delinquenziali riconducibili alle gesta sanguinarie della “Banda della Uno bianca” (sette anni e mezzo di attività criminali e di terrore, dal 1987 al 1994), c’erano sì dei fanatici razzisti, dei rapinatori sanguinari, delle schegge impazzite di un disegno oscuro, ma quegli assassini erano cinque poliziotti, armati e senza scrupoli, che usavano le attrezzature di servizio, e, senza destare sospetto alcuno, lasciavano la loro scia di morte lungo le strade dell’Emilia-Romagna.

Anche dopo i processi e le condanne, è rimasta oscura la ragione che ha spinto i fratelli Savi e i loro complici a compiere tanti crimini. Così come sono rimaste oscure le protezioni di cui hanno goduto.

C’è anche una domanda a cui non si è ancora riusciti a dare una risposta: chi c’era dietro a quella follia sanguinaria, chi ha protetto i protagonisti di una delle pagine più oscure della storia contemporanea del nostro paese?

In questi anni, quando le luci di scena sulle malefatte dei killer della Uno Bianca si sono abbassate, abbiamo continuato ad ascoltare molti luoghi comuni: “Gli zingari sono tutti ladri, sono tutti bugiardi…” e via discorrendo. Ci siamo ricordati (giustamente) dei cittadini indifesi, dei benzinai, degli armaioli, dei carabinieri che hanno trovato la morte per mano della famigerata banda dei Savi. I familiari delle vittime e le istituzioni ce lo hanno sempre fatto presente.

Ma della strage di via Gobetti, dove Patrizia e Rodolfo sono morti a causa della stessa regia, in molti si sono dimenticati. Rappresentanti istituzionali si sono fatti vedere a corrente alternata. Quanti anni sono che all’ex Fornace Galotti non arriva un sindaco, così come va negli altri luoghi degli omicidi della Uno Bianca?

L’ultima volta che il Comune di Bologna ha fatto pesare la sua presenza in Via Gobetti è stato il 22 giugno 2006, quando le ruspe del sindaco Cofferati abbatterono e distrussero le roulotte e le baracche di un accampamento di rom rumeni, sorto nella stessa area in cui si verificò la strage.

Se non fosse stato per il vecchio presidente dell’Opera Nomadi Mario Salomoni, per il “fotografo degli zingari” Mario Rebeschini, per Monsignor Giovanni Catti e per un piccolo gruppo di compagni del movimento, anche la piccola cerimonia di ricordo che si è tenuta per diversi anni sarebbe sfumata.

In quel dicembre insanguinato del 1990 l’intento dei killer della Uno Bianca era l’eliminazione fisica e la correzione con il terrore di soggetti concepiti come diversi, non omologabili, nemmeno degni di essere ascoltati. A distanza di tanto tempo, sui siti e sulle pagine Facebook dei leghisti e dei razzisti di varia natura, si leggono ancora dei propositi che i fratelli Savi fecero diventare una macabra realtà.