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Opinioni / #UkRiots: un anno dopo

Rimbomba il silenzio dei media ad un anno dalle rivolte inglesi. Tregua olimpica o rimozione collettiva? Ripubblichiamo alcune analisi uscite in questi ultimi giorni e quelle scritte “a caldo”, un anno fa, dai nostri collaboratori.

08 Agosto 2012 - 11:32

> #UK RIOTS

 Cronache di rivolta: [ 1 ]    [ 2 ]    [ 3 ]    [ 4 ]

 

> Commenti “a caldo”

1. (Tele)visioni e abbagli sui fuochi inglesi

2. Londra, i riots e la sfida ai movimenti

 

> #UK RIOTS: un anno dopo

3. Ad un anno dagli UK Riots: una quiete in tempesta..?

Fonte: Infoaut.org 

di Niccolo’ Cuppini

Alcuni appunti dall’Inghilterra su un grande rimosso del nostro presente

Arrivare negli aeroporti di Londra in questi giorni olimpici è un’esperienza vagamente inquietante. Uno dei primi sbarramenti che si deve superare è un piccolo varco sulle cui pareti diverse frecce indicano una telecamera. Appena il tuo sguardo fissa l’occhio elettronico, scatta una foto.

Peccato che ultimamente gli inglesi abbiano perso un po’ del loro tradizionale humor, perché un cartello con scritto “Smile! Big Brother is watching you” non ci sarebbe stato male.

Il senso di inquietudine aumenta quando ti rendi conto che da lì in poi ogni ulteriore identificazione per accedere al successivo step dell’infinito quanto ridondante sistema di controlli verrà fatto con quella foto. La sensazione di trovarti nel racconto Minority Report è piena.

Anyway.. In questi giorni, come prevedibile, il Regno Unito è letteralmente invaso dalle Olimpiadi. Sulla BBC non è possibile trovare altro (tranne qualche volta sul secondo canale, dove però televendite et similia non risultano particolarmente entusiasmanti), e stessa cosa per i giornali: uno potrebbe aspettarsi che The Times, Guardian o simili abbiano almeno un po’ di snobismo verso lo sport, invece anch’essi parlano per decine e decine di pagine esclusivamente di Olimpiadi. Il tutto ovviamente condito da un costante patriottismo alle volte davvero stucchevole.

Anyway.. Pare che quasi tutti se ne siano scordati, ma esattamente un anno fa scoppiavano quelli che passeranno alla storia come UK Riots. O forse alla storia non passeranno, visto l’assordante silenzio al riguardo durante quest’anno. D’altronde si sa che la storia è una delle discipline decisive per il controllo ed il mantenimento dello status quo.. Tuttavia si potrebbe supporre che vista l’entità di quell’evento nei giorni dell’“anniversario” si possa leggere qualcosa al riguardo. Invece assolutamente nulla. E non può certo bastare la fagocitazione olimpica a renderne ragione.

Due giorni fa, ovviamente solo dopo decine di pagine tessenti le lodi dei golden boys&girls locali, si poteva trovare un accenno al venturo referendum nel quale la Scozia deciderà se staccarsi dal Regno Unito o meno. Qualche vignetta che irrideva la coalizione al governo fra libdem e Tories (se si forma il mitico Polo della Speranza ne avremo anche noi un bel po’ di materiale umoristico. Tra l’altro, avevate notato che l’acronimo è un’inquietante PS?). Si poteva leggere qualche interessante articoletto su una composizione di diversi gruppi armati irlandesi che stanno riformando l’Ira. Molto spazio era dedicato alla questione siriana, con un’interessante intervista ad un combattente quaedista. Ma nemmeno un minuscolo trafiletto sul fatto che il 4 agosto 2011 la polizia londinese effettuava l’esecuzione sommaria di Mark Duggan. Due giorni dopo quell’assassinio un corteo promosso dalla famiglia, tra l’altro non massicciamente partecipato, terminava con qualche tafferuglio. Ma proprio da quel tafferuglio si scatenava la scintilla che incendierà per giorni la prateria di una delle metropoli dove più densamente è insediato il comando globale.

Dunque sui giornali inglesi non c’è alcuna traccia dei riots, nonostante l’anno scorso molte testate avessero dato ampio spazio a quei fatti anche con interessanti inchieste sociologiche sulla composizione del sommovimento e sull’uso della tecnologia fatto da esso. In termini psicoanalitici si potrebbe parlare di una straordinaria rimozione. In termini politici possiamo invece dire che quando il barbaro, il mostro, o forse lo spettro, il fantasma, è in casa propria, è meglio far finta che esso non esista.

Anyway.. Per avere una prova del fatto che, oltre ad essere estremamente redditizio, il governo della paura funziona, basta provare a scambiare qualche parola nei luoghi di ritrovo preferiti della società britannica: i pub. Se si tenta di parlare dei riots con qualche bianco di classe media esso risponde infastidito, quasi come se quei fatti al limite non fossero proprio successi, o quantomeno li derubrica velocemente come figli dell’immigrazione e della mala gestione della polizia. Se si prova ad approfondire il discorso immancabilmente ci si trova di fronte ad un frettoloso “Anyway..”, che prelude all’introduzione di un differente argomento di conversazione.

Mentre pur addentrandosi in qualche scalcinato pub periferico, trovare qualche proletario disposto a parlarne è pressoché impossibile, si accumulano solo rimandi evasivi, silenzi e finte incomprensioni linguistiche.

Anyway.. Una cosa che forse non è stata percepita dall’Italia riguardo agli UK Riots dell’anno passato è il legame fra essi ed i lavori per le Olimpiadi. Sicuramente le cause dell’esplosione della rivolta sono molteplici, ma non va sottovalutato il fatto che una delle più importanti strategie di accumulazione inventate dal neoliberismo è proprio quella del marketing urbanistico, del grande evento come punta avanzata di capitalizzazione che usa lo spazio metropolitano per l’estrazione di plusvalore.

Molti analisti britannici, non senza alcune ragioni, stanno parlando delle Olimpiadi come ultima vera istituzione globale multilaterale, dopo che la fine della guerra fredda ha progressivamente dissolto il sogno di un governo globale. Ebbene, forzando un minimo i termini della questione, si potrebbe dire che il proletariato inglese ha detto la sua contro questa istituzione con largo anticipo.

Ad un anno di distanza è utile ricordare alcuni degli elementi che hanno caratterizzato quella rivolta dentro e contro le metropoli:

– nell’anno in cui la Merkel e Cameron annunciavano il fallimento e la fine dell’idea di società multietnica, i riots hanno frantumato “l’alternativa”, ossia l’idea di Big Society proposta da Cameron. La sommossa, lacerando l’etnicizzazione sessuata delle gerarchie del mercato del lavoro, ha dato vita all’embrione di un melting pot di parte che è più che una potente allusione ad un meticciato possibile ed a-venire;

– come tutte le rivolte, essa è stata uno squarcio nel cielo. Ma al contempo come tutti i fenomeni sociali, non bisogna scordare che essi non sono evenemenzialità trascendenti quanto risultati di processi, accumuli di forze e tensioni, che possono risultare invisibili, ma che sedimentano e costituiscono un patrimonio al quale si potrà nuovamente accedere;

– la composizione degli UK Riots è stata ibrida, un misto di strati sociali e generazionali che ha saputo unire (basta guardare il profilo degli arrestati per intuirlo) proletariato di periferia e spezzoni di movimento studentesco e ceto medio in via di proletarizzazione, cosa che ad esempio non si era data durante la rivolta delle banlieues ed il movimento No Cpe in Francia. Inoltre la rete è stata una forma di organizzazione ed uno strumento di lotta assieme al contro-uso tecnologico, che rendono il segno della potenza cognitiva di quella composizione sociale, umiliata da anni di politiche neoliberiste di tagli e macelleria sociale;

– in una delle società con il livello di controllo sociale più alto la reazione dello stato fu isterica e brutale: dalle foto sui giornali e sulle auto della polizia con schermi proiettanti i volti dei rivoltosi, agli arresti di minorenni per l’incitazione alla rivolta su Facebook; dalla pratica dello stop and search (controlli e perquisizioni casuali per le strade) agli anni di galera per aver rubato una felpa fino alle minacce (infine realizzatesi solo parzialmente) di annullamento dei sussidi e delle case popolari. Una lezione è che lo stato di diritto si può tranquillamente sospendere nelle Democrazie Occidentali;

– la particolarità e novità dei fatti dell’agosto 2011 sta nell’aver individuato la riappropriazione diretta della merce come obiettivo primario. Un’idea di giustizia chiara e immediata, che ha fatto gridare allo scandalo morale e parlare di critica al consumismo tanta sinistra-bene. Una pulsione al “..riprendersi la merce e la vita..” che non è probabilmente stata sufficientemente ancora indagata.

Inoltre non si può sottacere il fatto che gli eventi di cui stiamo parlando non furono un momento isolato, ma si devono leggere in un quadro che fa tornare alla mente che giusto alcuni mesi prima migliaia di giovani avevano occupato la torre dei Tories a Londra ed assaltato la macchina dove viaggiavano i monarchi britannici. Immagini che fecero il giro del mondo e fornirono un eccezionale carburante di immaginario anche per il movimento italiano esploso nel 14 Dicembre. E non si può dimenticare che il 2011 è stato l’anno in cui per la prima volta dentro la crisi la classe-parte del lavoro vivo ha preso iniziativa anticapitalistica e decisioni di parte, dall’Europa al Nord Africa, dal medio Oriente agli Stati Uniti, dal Sud America al Canada (senza dimenticare che la pressoché totale assenza di informazioni non ci può far parlare con sufficiente cognizione dell’Asia, ma anche in quel contesto si sono date grandissime lotte…) con sommosse, tumulti, jacqueries, forme insurrezionali, rivolte – che non si possono certo dividere in buone e cattive.

Per concludere, nell’anno del Termidoro, in cui dentro lo spazio ed il tempo della crisi il capitalista collettivo ha nuovamente preso l’iniziativa, non può che sorgere una domanda: i riots inglesi sono stati eclissi o anticipazione? Folgorante tramonto di un ciclo di lotte o prime luci aurorali di un nuovo tempo dei movimenti?

Nessuno chiaramente ha una risposta certa al riguardo. Quello che tuttavia è possibile affermare è che quella rivolta ha fatto emergere e impresso nella mente di milioni di persone come urlo di potenza quell’Atlantide sommersa che spesso risulta invisibile ma che pulsa costantemente della riproduzione endogena di vita dell’autonomia sociale. Un continente fatto di spazi increspati, talvolta densi e raggrumati e talvolta sottilissimi come ghiaccio, estesi in flussi transnazionali o radicati come alberi nel territorio, con una temporalità mai lineare che procede per rotture, salti, vuoti, attese, rarefazioni e precipitazioni.. Un tessuto di classe multiforme fatto di sorprese e selvaggi assalti, assenze e frenesia d’azione e che come una talpa dal sottosuolo può spuntare fuori dove meno ce lo si aspetta, nei bordi o nel cuore delle metropoli globali.

Questa una delle ricchezze più preziose da non scordare della rivolta dello scorso anno. E, in un momento in cui la superficie del mare pare placida e soleggiata per i poteri finanziari, una delle certezze che ci possono far parlare di un quiete che in realtà cova tempesta.. In attesa che la fiaccola della rivolta cominci una nuova corsa.

4. I Riots in bianco e nero. Londra un anno dopo 

Fonte: Connessioni Precarie

di Gabriella Alberti

Ovunque io vada sono trattato come un negro che è venuto qui 60 anni fa […] mi vedono come un immigrato e puoi sentire quel razzismo inconscio dappertutto. Puoi sentirlo e vedi il modo in cui ti guardano […] è quello che è. Non c’è niente da fare.

Nell’estate del 2011 centinaia di persone provenienti dalle aree più disagiate della Gran Bretagna furono coinvolte in scontri con la polizia e saccheggi. Molte di loro erano cittadini inglesi con un background migrante alle spalle. I riots sono cominciati nel nord di Londra il 5 Agosto e si sono diffusi in altre città dell’Inghilterra comprese Birmingham, Liverpool, Nottingham, Manchester e Salford. Erano espressioni di segregazione sociale e razziale sperimentata soprattutto dalla gioventù nei quartieri ghetto del paese.
La rabbia della comunità di Tottenham, dove si è acceso il primo focolare della rivolta, è stata provocata dal rifiuto della polizia di dare spiegazioni alla famiglia di Mark Duggan riguardo alla sua morte. Mark era un ragazzo inglese nero, ucciso dalla polizia nel corso di un’operazione contro la criminalità nelle comunità nere londinesi. Dopo una manifestazione non violenta della comunità davanti alla stazione di polizia di Tottenham, la tensione è salita insieme alla repressione della polizia, e si è estesa agli altri quartieri della capitale e ad altre città. Mark è solo uno degli esempi delle molte morti avvenute durante questo tipo di operazioni: 333 dal 1998, senza nessuna spiegazione da parte dei funzionari della polizia. Non c’è da stupirsi che la gente in queste comunità abbia sviluppato un senso di ingiustizia e una sfiducia nel lavoro di istituzioni come la «Commissione indipendente per i reclami contro polizia», responsabile di investigare sull’assassinio, perché viste più come protettrici della polizia che non della gente. Soprattutto tra le seconde e terze generazioni di migranti c’è una profonda sfiducia nella polizia e nelle sue tattiche repressive ereditata dalle generazioni precedenti di migranti che hanno sperimentato la brutalità poliziesca durante le lotte anti-razziste come i riots di Brixton negli anni ’80. Ma non è una questione limitata al passato. La realtà quotidiana del maltrattamento della polizia e del razzismo istituzionale in un contesto di crescita della povertà e del controllo poliziesco – una tipica combinazione in epoca di crisi economica – viene indicata dai rivoltosi stessi come la causa più importante dei disordini.

Molti di loro hanno avuto esperienze negative con la polizia, come essere pestati nei cellulari e l’arresto preventivo grazie al cosiddetto stop and search. Dal 1994, grazie all’art. 60 del Criminal Justice and Public Order Act, per contrastare la criminalità, i comportamenti anti-sociali e le «guerre tra bande», la polizia britannica ha il diritto di perquisire persone in una specifica area e in uno specifico momento qualora abbia buone ragioni di ritenere che vi siano seri rischi di violenza. Un fattore che ha sprigionato i tumulti, infatti, è stato l’umiliazione, il sospetto ingiusto e il profilo razziale caratteristici di questo tipo di operazioni di polizia. Esse sono collegate alla più ampia trasformazione delle relazioni tra la polizia e le comunità favorita dalla «guerra al terrore» del governo. La politica selettiva e razziale che sostiene lo stop and search è resa chiaramente evidente dal fatto che la polizia lo ha applicato 80 volte in più nel quartiere di Haringay, dove si concentrano molte delle minoranze e dei migranti di Londra. Haringay è anche il quartiere con il più alto livello di povertà minorile, un tasso di disoccupazione del 8,8% e un solo posto libero per ogni 54 persone che cercano lavoro.

Nel Regno Unito, mentre la popolazione nera costituisce meno del 3% della popolazione, il 15% delle persone fermate dalla polizia sono nere. In uno spettro che comprende tutte le fasce d’età, è quattro volte più probabile che venga incarcerato un giovane adulto nero. È 5 volte più probabile che un nero finisca in carcere che un bianco e, tra il 1998 e il 2008, i detenuti che appartengono a una minoranza etnica sono raddoppiati da 11.332 a 22.421. I riots estivi, perciò, si possono leggere sia come l’indicazione di una crescente difficoltà di organizzazione sociale da parte dello Stato in un periodo di crisi economica, sia come una risposta alle politiche della crisi, dove i giovani proletari bianchi e neri e i migranti senza documenti diventano il bersaglio principale.

Contrariamente all’opinione diffusa, i protagonisti dei riots non erano privi di istruzione. Molti erano iscritti alle scuole superiori o all’università. Le misure di austerità, e in particolare i tagli all’istruzione, hanno chiaramente favorito il malcontento tra i giovani provenienti dalla classe operaia migrante o bianca, che hanno visto improvvisamente sfumare le loro opportunità di accesso all’istruzione. Anche nel Regno Unito il sogno a buon mercato della mobilità sociale si è infranto per quelli che non possono permettersi di accedere all’università (9000 sterline all’anno per un corso di laurea di primo livello!). Che il consumo sia visto come un segno di ascesa nella scala sociale, può spiegare i vari attacchi a negozi e saccheggi durante i riots estivi (circa 2.500 negozi ed esercizi commerciali sono stati derubati in Inghilterra). Oltre a reclamare il «diritto a prendere la roba», i saccheggi non sono sorprendenti dopo decenni di campagne ideologiche dove «il consumismo fondato sul debito personale» è stato stimolato dai governi sia laburisti sia conservatori come la soluzione ai problemi dell’economia nazionale. Mentre la maggior parte dei commentatori dei riots di ogni partito politico era impegnata a giudicare se questi erano atti politici o mere espressioni di consumismo violento (che rispecchiavano semplicemente «lo spirito selvaggio del capitalismo»), la cosa rilevante è piuttosto comprendere il contesto specifico nel quale i migranti di seconda e terza generazione hanno partecipato alla lotta con la polizia e ai saccheggi.

Nelle comunità nere molti hanno detto che, nonostante la realtà (e il mito) di una parziale mobilità sociale, l’isolamento continuo e le lotte per l’accettazione sono ancora all’ordine del giorno per i migranti caraibici, africani e asiatici. Affrontando il razzismo istituzionale dello Stato e delle sue articolazioni locali, le rivolte sociali del passato potrebbero apparire meglio organizzate per il fatto che i migranti di prima e di seconda generazione usavano il contesto dei riots per costruire e dare avvio alle loro strutture e attività, quali i centri giovanili e di comunità, il monitoraggio della polizia, il servizio di ricerca lavoro e altri servizi, cercando cioè di organizzare autonomamente la propria vita e il tempo libero nella comunità. Se in quel momento queste attività erano parte tanto di una battaglia contro l’esclusione razzista quanto per l’autorganizzazione, i riots di oggi possono apparire privi di proposte e più individualizzati. Tuttavia, proprio nel contesto delle rivolte della scorsa estate e della criminalizzazione dei giovani delle periferie che sono state il teatro della sollevazione (così come le proteste studentesche che hanno significativamente preceduto le rivolte a partire dall’autunno 2010), le persone sono sembrate capaci di creare nuovi legami e nuove strutture di solidarietà.

Esempi possono essere lo Stop Criminalizing Hackney Youth e il Tottenham Defense Campaign, che si sono costituiti subito dopo le rivolte e la repressione poliziesca. Queste campagne aumentano la consapevolezza delle cause sociali dei riots nelle comunità coinvolte, promuovono l’auto-organizzazione e creano strutture di supporto legale per le famiglie di coloro che sono detenuti. Esse lavorano anche contro l’esclusione sociale, l’isolamento e la stigmatizzazione di coloro che sono coinvolti nei riots e contro l’uso indiscriminato e razzista dello stop and search da parte della polizia. Ulteriori esempi di solidarietà stanno emergendo a Londra grazie a iniziative che coinvolgono gruppi che operano nei campi dell’istruzione e dei movimenti contro i tagli del 2011, così come quelli che si battono contro le politiche razziste e per la libertà di movimento e di migrazione. Come risposta ai raid effettuati dalla UK Border Agency nei confronti dei migranti a partire dai mesi delle rivolte, una nuova campagna anti-raid è stata lanciata dalle comunità dei Latinos come la Latin American Workers Association (LAWAS) e dagli attivisti precari trans(locali) della capitale (ad esempio la Precarious Workers Brigade).

Effettivamente, dopo la spettacolarizzazione della violenza da parte dei media in agosto, l’ombra strisciante e silenziosa dei riots ha legittimato azioni meno visibili contro le comunità migranti a Londra, vittime delle stesse tattiche che hanno provocato la rabbia giovanile contro la polizia nell’estate scorsa. La pratica dello stop and search riappare ora nelle «operazioni di strada» e nello stop and search «speciale» contro coloro che potrebbero sembrare «immigrati illegali». La UK Border Agency e la polizia portano avanti un’azione coordinata con l’obiettivo di prendere le persone senza documenti, portarle in carcere e deportarle. Lo scorso febbraio la comunità dei Latinos nel sud di Londra è stata un obiettivo particolare dall’Agenzia, portando gruppi come LAWAS a mobilitarsi insieme alle Precarious Workers Brigade. Circa 440 incursioni sono state registrare in un solo giorno in vari luoghi di lavoro di Londra. Oltre alle incursioni nei luoghi di lavoro, una nuova tecnica usata dalla polizia è quella di prendere come obiettivi i momenti di ritrovo quotidiani come le fermate degli autobus e gli eventi culturali frequentati da certe comunità. Purtroppo, le operazioni raggiungono spesso buoni risultati, come il recente raid a un concerto portoricano in Elephant and Castle dove molti migranti latinoamericani sono stati arrestati (e molti di conseguenza deportati) mentre facevano la fila per entrare. Questo, insieme agli attacchi contro le prostitute migranti in altre zone della città, è sembrato un tentativo chiaro da parte della polizia di «ripulire» la città da migranti non-autorizzati e altri lavoratori «immeritevoli» prima che i turisti invadano la capitale per le Olimpiadi. Non importa se quei migranti che sono molestati, perquisiti e deportati sono gli stessi che lavoravano e lavorano alla costruzione delle strutture in cui hanno luogo i giochi.

La collaborazione tra LAWAS e le Precarious Workers Brigade ha portato alla produzione di una migrant bust card per diffondere le informazioni ai migranti e alle loro famiglie sui loro diritti e su come difendersi dalle molestie della polizia durante lo stop and search e una volta che sono stati messi in prigione. Le nuove alleanze emerse in questo momento di crisi, austerità e repressione razzista da parte dello Stato, mostrano come le forme di ribellione dei lavoratori migranti, così come quelle dei precari, non rispecchiano semplicemente la fase selvaggia del capitalismo e la sua risposta brutale alla crisi, ma risvegliano anche inaspettate forme di solidarietà e di autorganizzazione.