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“Staveco per chi?”

Hobo: “Documento d’inchiesta per analizzare quelle che sono le motivazioni strutturali ma soprattutto le contraddizioni del progetto” voluto da Comune e Università.

12 Febbraio 2015 - 18:51

Staveco per chi?

caserma stavecoNel dicembre 2012 il Sindaco di Bologna consegna l’area Staveco – un’area di 9 ettari destinata ad uso militare per 150 anni dal 1796 alla seconda guerra mondiale – all’Università di Bologna. Il Rettore Dionigi introducendo il testo di presentazione del progetto (“Staveco” di Editrice Compositori) afferma: “A Bologna c’è un’Università che con i suoi 925 anni è la più antica dell’Occidente e che fin dalle sue origini, per vocazione e per scelta, si identifica con la città; un’Università che con i suoi 87.000 studenti, 3.000 professori e 3.000 tecnici amministrativicostituisce la prima impresa dell’Emilia Romagna. Un’Università che grazie ai suoi ventenni porta in dote alla società un triplice bonus: anagrafico, culturale, economico”. E prosegue: “Chiare e coerenti le linee programmatiche, tutte tese a configurare un insediamento universitario con queste marche identitarie: internazionalizzazione, con la sede per i visiting professor; riconoscimento del merito, con la sede del collegio d’eccellenza e la residenza per i migliori laureati.”. Conclude: “Il progetto è destinato a rimanere un sogno e infrangersi per la competizione di nuovi aspiranti o più semplicemente per la mancanza di finanziamenti? “

L’introduzione del cosiddetto Magnifico Rettore, densa di retorica aziendalista verniciata da improbabili appelli al “bene comune”, ci permette di analizzare quelle che sono le motivazioni strutturali ma soprattutto le contraddizioni del progetto Staveco.

In primo luogo è necessario contestualizzare l’opera Staveco riportando alcuni concetti di un’interessante analisi fornita da una ricercatrice torinese, Simona De Simoni, che si è focalizzata principalmente sul rapporto tra spazi, politica e sviluppo capitalistico.

caserma stavecoStaveco rientra perfettamente in quella che De Simoni chiama “urbanizzazione del capitale”. La metropoli diventa luogo di realizzazione della tensione tra austerity e crescita che alimenta i sogni del capitale e segna politiche di imprenditorialità urbana a gestione mista (pubblico/privata, locale/globale) e ad alta competitività interurbana. Lo spazio urbano si caratterizza sempre più come terreno fertile per un’economia della rendita che si fonda sulla messa a valore speculativa dei suoli, sullo sfruttamento delle forme di vita in quanto tali, sulla precarizzazione del lavoro, l’aziendalizzazione dei servizi e del welfare, l’incremento del controllo sociale, la criminalizzazione della povertà, le politiche immobiliari speculative e così via.

A quali sogni si riferiva il rettore Dionigi se non ai sogni del capitale, degli speculatori e della rendita, che in questa città e regione sono gestiti dal sistema-PD?

L’UniBO, prima impresa dell’Emilia Romagna, ha in sé tutte queste caratteristiche: ha ormai i connotati di un’azienda in cui lo studente è un mero utente costretto a lavorare gratis per arricchire il suo curriculum, i lavoratori e ricercatori sono posti in una situazione di sempre maggiore precarizzazione, tutto ciò in linea con le politiche nazionali sul lavoro del Partito Democratico. È evidente che l’opera Staveco impone questo modello essendo un progetto finalizzato alla speculazione e al profitto, un’opera che vede l’UniBO impegnarsi ad assumere la funzione di stazione appaltante e a finanziare con risorse proprie e/o tramite altri partner l’intera operazione di recupero dell’area (come si legge sull’accordo tra università e comune di Bologna).

Come emerge dal testo “Staveco” inoltre i costi da affrontare per la realizzazione dell’opera sono divisi in svariate fasi (i costi di intervento effettivo rappresenterebbero l’ultimo passo) e l’elevata dilatazione dei tempi di realizzazione dell’intervento edilizio “produce costi finanziari aggiuntivi che possono condizionare la fattibilità economica dell’intervento in modo significativo”. A questo punto viene spontaneo chiedersi come l’impresa UniBO finanzierà il progetto Staveco. Nel testo nessuna risposta a questa domanda è presente e dalle ultime dichiarazioni del Rettore, ormai giunto alla fine del suo fallimentare mandato, nonché dal contenuto dell’accordo tra università e comune, emerge che l’unica possibilità per l’UniBO è quella di svendere e dismettere una parte consistente del suo patrimonio immobiliare di valore storico-culturale. Un patrimonio ovviamente pubblico, cioè pagato con i nostri soldi e su cui tuttavia non abbiamo alcuna possibilità di decisione. Il quadro è chiaro: valorizzare un’area dismessa (area Staveco) dismettendo immobili dell’università. Un secondo interrogativo da porsi è: chi comprerà questi immobili dall’elevatissimo valore?

Pochi giorni fa Repubblica titolava: “Staveco, passo in avanti per il nuovo campus si muove il ministero”. Ad aver espresso una manifestazione di interesse è stata la Invimit Sgr Spa, (Investimenti Immobiliari Italiani Sgr S.p.A., creata dal governo Letta nel 2013 con il principale scopo di ridurre il debito pubblico), una società il cui capitale è interamente detenuto dal Ministero dell’Economia e delle Finanze e il cui obiettivo è, operando in ottica e con logiche di mercato, di cogliere le opportunità derivanti dal generale processo di valorizzazione e dismissione del patrimonio immobiliare pubblico. Invimit assume un ruolo di cerniera tra i soggetti pubblici, proprietari di ingenti patrimoni immobiliari, e il mercato. Il prorettore al patrimonio E. Ferrari si è detto entusiasta di questa manifestazione d’interesse, d’altra parte, come lo stesso articolo sottolinea, finalmente l’ateneo potrà decidere di quali immobili privarsi senza “l’incubo” che restino invenduti. Appare dunque evidente che questo passaggio di capitali immobiliari costituisca un’ulteriore fase di speculazione, che collega il patrimonio pubblico, pagato con i nostri soldi, al mercato degli speculatori e della rendita. Un mercato che non farà mai l’interesse di chi quegli spazi li ha pagati e attraversati. Ci troviamo di fronte ad una valorizzazione speculativa che non ci coinvolge e non ci dà alcun potere decisionale.

L’approccio alla questione urbana finora descritto non tiene dunque in considerazione alcune problematiche che invece tale questione deve porre. Se la Staveco rappresentasse davvero, come sostiene Dionigi, una sfida nel nome degli studenti e del “bene comune”, avremmo dovuto sentire parlare di reddito, abitare, salute, mobilità, formazione, bisogni e desideri. Eppure l’impressione è quella che un Rettore a fine mandato porti avanti un progetto in nome di una personale campagna elettorale piuttosto che di una reale soddisfazione dei bisogni degli studenti.

Perché decentrare l’Università?

È interessante notare come nel testo “Staveco” venga descritto in modo molto dettagliato il modello organizzativo del campus, facendone emergere anche le sue radici storiche. Esso è un luogo situato all’esterno della città, un microcosmo del sapere a cui l’etica protestante attribuiva il ruolo di isolare gli studenti per tenerli lontani dai disordini e dalle tentazioni della città, un luogo dunque dominato dalla compresenza di libertà e controllo. In Italia sin dagli anni sessanta, sul modello americano e non solo, hanno preso vita insediamenti universitari che si rifanno al modello organizzativo del campus. Si legge nel libro che la tradizione bolognese è sempre stata quella di rifiuto dell’isolamento dell’università dalla città, mentre con il campus di Ozzano e oggi con il progetto Staveco sembra volersi attuare il decentramento dell’università inteso anche come riconcentrazione organica per gruppi di facoltà in poli universitari.

Ebbene, il polo Staveco è un tentativo di decentramento dei luoghi dell’università attraverso la creazione di un polo dei saperi “eccellenti” e “meritevoli” (ma chi decide poi quali saperi lo siano se non i baroni e il mercato, cioè chi ha in mano le redini del potere economico e politico?), un mezzo per contrastare il libero scambio delle conoscenze, il far credere che esista solo un tipo di formazione, quella della meritocrazia competitiva.

Staveco è il simbolo di un processo di normalizzazione dei bisogni e dei desideri di tutte le soggettività che attraversano l’università. Ma lo spazio non è un oggetto, bensì il prodotto di una serie di relazioni; il nuovo polo universitario, dunque, non rappresenta altro che una delle aggressive politiche urbane neoliberali che risponde, tentando di dominarla, alla potenza delle soggettività che abitano e attraversano gli spazi metropolitani e nel nostro caso universitari.

Che modello di città e università immaginiamo?

Il nostro non è semplicemente un NO al progetto Staveco, limitato all’indispensabile resistenza alla valorizzazione tout court e all’opera in se stessa; il nostro è innanzitutto un SÌ ad una ridefinizione costituente del rapporto tra spazio e figure del lavoro, un’affermazione di libertà per ripensare l’urbano a partire dai soggetti che lo vivono e lo producono. È dunque una resistenza immediatamente riappropriatrice: di spazio, di saperi, di tempo. La metropoli è infatti abitata da diverse soggettività che sono sempre più desiderose di riappropriarsi del frutto della loro attività quotidiana di cooperazione, dei loro saperi e dello spazio urbano, che vogliono riappropriarsi di bisogni e desideri, di reddito e libertà.

Il modello di università che vogliamo è quello in cui poter costruire spazi di autonomia e autorganizzazione. La posta in palio della lotta contro il progetto Staveco non è banalmente la collocazione di aule e dipartimenti: è la possibilità di costruire uno spazio urbano a partire dalla decisione dei soggetti produttivi, dei precari e degli studenti; di ripensare radicalmente l’università sulla base dei percorsi di autoformazione e autovalorizzazione autonoma. Per questo motivo, dentro l’università in via di dismissione, la riappropriazione degli spazi assume un carattere parzialmente nuovo e di particolare importanza: perché non si limita alla legittima rivendicazione della possibilità di autogestirli, ma afferma immediatamente la possibilità di costruire spazi di formazione e metropolitani radicalmente differenti da quelli imposti dalla rendita. Ed è per questo che bisogna resistere e attaccare nel punto di partenza e nel punto di arriva della traiettoria urbana della speculazione, ovvero agire contemporaneamente su via Zamboni e sull’area Staveco. Dunque, se l’università vuole svendere gli spazi pubblici, la nostra sfida non consiste nella loro mera difesa, bensì nella loro trasformazione in spazi comuni, cioè spazi in cui sia collettiva la gestione e la decisione.

Hobo – Laboratorio dei Saperi Comuni