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Speciale / Marzo ’77, il carteggio tra Roberto Roversi e Renato Zangheri

Dopo la rivolta e l’omicidio Lorusso, il poeta scrisse al sindaco di una città “dalle ossa rotte”. La risposta di Zangheri richiama discorsi di palazzo riecheggiati anche recentemente. Pubblichiamo lo scambio, ricevuto tramite la famiglia Roversi.

19 Marzo 2017 - 12:01

A 40 anni dalle giornate del marzo 1977, delle strade occupate dai sogni e della morte di Francesco Lorusso, studente e militante di Lotta Continua ucciso dai Carabinieri in via Mascarella, pubblichiamo lo scambio epistolare che dopo quegli eventi intercorse tra il poeta Roberto Roversi e l’allora sindaco comunista Renato Zangheri. Un sunto del carteggio (all’epoca apparso su l’Unità) è arrivato alla nostra redazione tramite la famiglia Roversi. Già elettore del Pci, dopo i fatti del ’77 l’intellettuale immortalò quei giorni chiedendosi “a che punto è la città?” in una poesia ancora oggi profondamente attuale e fondò la rivista “Il cerchio di gesso”, nome che prese spunto proprio dai segni lasciati sul muro di via Mascarella dalle pallottole che avevano ucciso Lorusso. E’ una Bologna “con le ossa rotte” quella su cui Roversi interpella il sindaco, una Bologna che “avrei voluto aprisse tutte le sue porte invece di chiuderle in fretta per assicurarsi e intanarsi”. Zangheri, sotto la cui amministrazione era arrivato l’ok ai carri armati in via Zamboni e il divieto a tenere i funerali di Lorusso nel centro della città, nella sua risposta ammette “i nostri errori”, ma leggendo la sua lettera non è difficile immaginare dove abbia potuto trarre ispirazione qualche suo successore, decenni dopo, per commentare più recenti eventi che hanno visto protagonisti gli studenti ed attaccare le loro rivendicazioni, in una città che continua ad affrontare i bisogni sociali con un impiego sempre più ampio e disinvolto della polizia.

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> La lettera di Roberto Roversi:

Penso che il tentativo di criminalizzare Bologna, avviato altre volte in passato e senza un risultato per la reazione pronta, decisa, unitaria della città, questa volta abbia in qualche modo prevalso; e che la città sia uscita dalla prova con le ossa rotte. Ci vorrà tempo, ci vorranno opere, ci vorranno attente e precise parole per ricucire; soprattutto occorrerà una chiarezza di fondo che non mi sembra ancora di cogliere.

In che senso intendo «con le ossa rotte»?

L’intendo così: per tiepidezza di guida politica e di riferimento ideologico; per non aver potuto identificare subito il Comune come il centro a cui rivolgersi per capire; per non aver ricevuto in merito informazioni chiare ed immediate; al contrario, per avere vissuto di voci, di notizie verbali porta a porta e per aver dovuto attingere queste informazioni dalla stampa borghese o da alcune radio alternative (stante che la politica della «comunicazione» del partito non ha ancora messo in atto a Bologna alcun strumento immediato che non sia quello ufficiale dell’Unità; ed è arretrante e non corretto, a mio parere, mitizzare Radio Alice come il mostro della favola, mentre è un centro di distribuzione della comunicazione che ha subìto, per le generali, una detestabile sopraffazione. Siamo tutti convinti, è vero, che gli errori si debbono contestare uno ad uno; ma in pubblico, non costringendo al silenzio col coltello alla gola).

Una presenza politica a cui riferirsi senza intermediari, la quale aiutasse a precisare e a spiegare con chiarezza e giustizia, quanto più possibile, avrebbe evitato la frana che c’è stata. (Questa latitanza, a mio parere, è conseguenza di una scelta politica a livello nazionale che dovrebbe essere tutta riconsiderata. Ci si è defilati affidando la città esclusivamente alle forze dell’ordine per confermare la proposta di una propria disponibilità governativa e per ribadire in pubblico un intransigente legalitarismo che sostenesse la proposta. Anche se le migliaia di uomini armati, a cui si affidava l’opera pratica di ricondurre in città l’ordine dilacerato, avevano messo Bologna in uno stato d’assedio, presentandosi con una rapidità di intervento e di manovra tali da far pensare a preveggenza. E loro avevano innescato il fuoco con un assassinio a freddo).

Bologna, a mio parere, aveva l’obbligo di assumere in proprio il primo morto giovane caduto sulle sue strade e non doveva (né poteva) rassegnarsi a emarginarlo rifiutandosi di dargli il proprio nome e di coprirlo con un pezzo di bandiera.

Credo che questo sia da ripetere con disperazione nella mente, per un’occasione mancata. Chi non ha veduto la città nelle quattro sere, dentro al suo centro storico che pareva fatto solo di pietre morte e coperta dal fiato di quattromila uomini armati, non può immaginare il peso della delusione.

Cosa mi sarei aspettato io, cittadino bolognese?

Prima di tutto che la manifestazione unitaria, svoltasi a fatti compiuti, si organizzasse il giorno stesso dell’eccidio, per coinvolgere (come si chiedeva) il movimento degli studenti in un’azione che desse un pronto significato politico alla rabbia giusta e all’autentico dolore di questi giovani troppo spesso insultati dalla retorica ufficiale.

Come secondo atto, lo voglio ripetere, mi aspettavo che il giovane ucciso fosse raccolto dalla città tutta intera.

Poi mi aspettavo che il Comune si dichiarasse di tutti dentro a una vigile libertà sforzandosi subito non come intermediario ma come promotore a suggerire la comprensione dei problemi e dei fatti; e che ancora una volta in questo modo si proponesse come il riferimento unico e vero di tutta la popolazione onesta, in un momento amaro.

Mi aspettavo anche che piazza Maggiore fosse e restasse illuminata a giorno, per chiamare, suggerire, parlare, e non lasciata spenta, viscida, fredda, orribile.

Mi aspettavo che la città proprio lì, celebrasse subito e ancora una volta il suo grande rito politico di ritrovare la voce per continuare a parlare e a capire, mentre il fuoco era in atto.

Sicché ci fosse ancora una volta la conferma che liberi cittadini di una libera città non delegavano a nessuno l’impegno dell’ordine libero e sapevano come sempre muoversi e agire dentro ai propri errori, al proprio dolore e alla durezza degli atti. Senza opporre violenza a violenza, ma solo la forza di una pronta e militante convinzione unitaria (dura, decisa e di massa) ai fucili spianati e allo svolgersi della trama eversiva.

Avrei voluto anche sentire subito qualche affermazione di autocritica ufficiale rivolta agli studenti, che sono spesso meno avventati di quanto la prosopopea ufficiale sostenga per un ovvio tornaconto.

Un’autocritica del seguente tenore: la città di Bologna non vive per gli studenti, benché ne accolga sessantamila; e neppure vive con gli studenti, benché ne accolga sessantamila; ma vive sopra gli studenti, cioè sui sessantamila studenti; in questo, con vergogna, come una città terziaria. E perciò se c’è rabbia è una rabbia da distribuire; e se ci sono errori, questi errori sono di tutti.

Così dicendo, anche i tanti concittadini benpensanti (e a ogni livello) invece di discettare con un perbenismo viscido su scarsa o buona voglia di studiare avrebbero dovuto guardarsi allo specchio (magari raccattando un pezzo di vetrina spaccata) e interrogarsi. È mancata una voce che parlasse, e che spiegasse, in quella direzione.

Avrei naturalmente biasimato la violenza contro le povere vetrine, ma avrei indicato subito quale terribile violenza (ufficiale) veniva messa in atto contro la città e contro tutte le istituzioni della libertà, partendo dal sangue di un giovane generoso, passando attraverso i cristalli rotti e legandosi a un piano di sovversione che dura da interminabili diciassette anni e che ha fatto l’Italia un Paese unico al mondo.

Io avrei voluto sentire che Bologna era ancora una volta forte, in un momento di dura necessità. Non una città spaventata, inquieta, incerta, delegante. Dopo cento anni, e per una volta, ancora carogna. Avrei voluto che aprisse tutte le sue porte invece di chiuderle in fretta per assicurarsi e intanarsi. La ringrazio. E mi sottoscrivo.

Roberto Roversi

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> La risposta di Renato Zangheri:

Nella lettera di Roversi trovo una singolare mancanza di riferimento ai fatti, accanto a ansie e preoccupazioni che non si possono non apprezzare. Vorrei rivolgere a mia volta a Roversi alcune domande, forse brutali:

1) sa che nelle assemblee dei cosiddetti autonomi era proibito a studenti comunisti e appartenenti ad altri movimenti democratici di parlare? E che si tenta ancora, in qualche caso, di impedirlo? Per quante ragioni di protesta abbiano gli studenti, e sono moltissime, si può giustificare il fatto che una minoranza, il 5%, poco più poco meno, paralizzi l’attività didattica e politica di alcune facoltà?

2) sa che venerdì 11 marzo il corteo proveniente dall’Università scandiva lo slogan infame: «La Giunta è rossa del sangue di Francesco?»

3) sa che sabato 12 marzo sono stati svaligiati una ferramenta ed un’armeria e centinaia di armi circolavano in città?

4) non ritiene che in queste condizioni quella che egli chiama la «città» abbia dato prova di notevole fermezza e senso di responsabilità evitando di intervenire direttamente per disarmare gli scalmanati? O essi debbono avere licenza di ingiurare, minacciare, e peggio?

5) non pensa che la causa del rinnovamento della scuola e della società venga danneggiata gravemente dai disordini, e che proprio a questo mirino gli ispiratori della strategia dell’eversione, che si sta sviluppando nel Paese?

Tralascio gli argomenti economici. Tutti sanno che Bologna non vive sugli studenti. I prezzi esosi degli affittacamere si ripercuotono sul livello generale dei prezzi, e ricadono anche sui bolognesi.

Non sarebbe più produttivo lottare per la casa e per l’equo canone anziché inneggiare al caos? Perché addossare a una città colpe, leggi, omissioni, che risalgono ai governi e alle classi dominanti? Il problema non è, ancora una volta, di cambiare gli indirizzi politici ed economici nazionali?

Anche noi abbiamo commesso i nostri errori. Ne abbiamo parlato pubblicamente. È possibile che Roversi non abbia sentito? Ed è davvero possibile che giudichi trascurabile il fatto che una moltitudine sterminata di bolognesi ed emiliani si è riversata il 16 marzo nel centro di Bologna, e con essa era la grande maggioranza dei giovani, per chiedere rispetto dell’ordine democratico?

Renato Zangheri