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Opinioni / Vogliono riaprire i manicomi: riapriamo un dibattito sulla sofferenza mentale

Passa in senato il Tso semestrale: “Chi sta male sradicato dalla vita è ospedalizzato, messo in una discarica sociale”. Un commento da Uninomade.

11 Agosto 2012 - 15:28

di LORIS NARDA

É stata appena approvata dal senato una norma di riforma della legge Basaglia (legge 180) che sostanzialmente riapre la strada a processi neo-manicomiali attraverso la nascita di trattamenti sanitari obbligatori di durata semestrale rinnovabili per altri sei mesi (oggi sono 7 giorni rinnovabili di altri 7), dunque molto lunghi. Vediamo ritornare una logica che porta di nuovo a percorsi in cui chi sta male viene sradicato dalla sua vita e ospedalizzato (intendendo con questo l’aggiunta di dolore e sofferenza oltre la malattia in corso), sostanzialmente messo in una discarica sociale dove non possa essere di disturbo a nessuno.

Di fronte a questi tentativi di far ritornare le pratiche psichiatriche a prima della chiusura dei dispositivi manicomiali (di cui in realtà una parte è rimasta intatta fino ai nostri giorni: gli OPG, ospedali psichiatrico giudiziari) non si può non cogliere l’occasione per ricominciare a parlare dopo tanti anni di battaglie e vertenze che possano riprendere anche in questo campo, come poderose e ricche sono state durante tutto il ventennio dei ’60-70′ in Italia e non solo, costola del più vasto movimento di ricomposizione sociale e politica di quegli anni.

E non si può non ripartire proprio dalla riforma Basaglia, che prevedeva tutta una serie di servizi territoriali rimasti completamente sulla carta, che avrebbero dovuto riportare il “malato” all’interno del suo contesto di vita facendolo uscire dai manicomi che ormai a vista di tanti di “terapeutico” avevano ben poco. Ultimamente le cose sono anche peggiorate con i primi tagli alla sanità che guarda caso hanno riguardato psichiatria e tossicodipendenze.

Inoltre sugli OPG e la loro riconversione in strutture più piccole e sparse sul territorio si gioca anche una partita sulla possibilità di conoscere come funzioneranno, se saranno inserite in contesti abitativi o al contrario isolate dalla vita sociale, se qualcuno potrà entrare dentro a verificare le condizioni di vita dei pazienti.

Insomma, il tema degli OPG sarà un pezzo importante della questione più generale dell’assetto dei servizi di salute mentale, all’interno della quale si colloca la proposta di riforma del senatore del PDL Ciccioli.

A questo punto però bisogna fare un passo indietro, provando a capire dalla genealogia di una serie di pratiche politiche e teoriche in quale direzione debbano muoversi oggi le battaglie in questo campo, laddove distinguere tra normalizzazione, controllo e processi di soggettivazione nelle pratiche terapeutiche deve essere uno dei nostri primi obbiettivi.

I corsi al Collège de France di Michel Foucault possono essere un’ottima traccia di analisi delle pratiche discorsive e di potere della psichiatria e delle istituzioni manicomiali.
Uno di questi corsi, ”Il potere psichiatrico” (edito da Feltrinelli), può essere considerato una pietra miliare per chi si avvicini ad una critica radicale di queste pratiche, laddove partendo dall’analisi dei manicomi di inizio ’800 Foucault riesce ad individuare molto bene quale sia il campo di battaglia che si viene a determinare all’interno di queste strutture.
Da un lato i malati e dall’altra i detentori del nascente sapere-potere psichiatrico che avevano come compito unico quello di far accettare, di far prevalere sui folli il principio di realtà dei quali erano portatori, messo sul piatto come un principio neutrale e “tecnico” e che sostanzialmente vedeva il lato terapeutico come la vittoria di questa visione sulle resistenze del malato.
E dunque via con una serie di regole “morali” che lo psichiatra deve seguire per piegare la volontà del malato e trascinarla con queste doti nell’unica visione della realtà possibile (secondo lo psichiatra), ed individuando in queste strutture il dispiegarsi di una microfisica del potere disciplinare che lentamente si affianca alla molarità del potere di sovranità.

Ovviamente il manicomio non è che una delle strutture nelle quali è possibile analizzare il passaggio al potere disciplinare, ma all’interno delle quali il campo di battaglia pare delineato con particolare chiarezza e profondità; non a caso una serie di concetti come governamentalità e biopotere trovano la loro genesi sia in questo corso che ne “Gli Anormali” per poi essere pienamente sviluppati nel trittico di corsi degli anni immediatamente successivi “Bisogna difendere la società”, “Sicurezza,territorio,popolazione” e Nascita della biopolitica”, e da “Sorvegliare e punire” scritto nel 1975.
Dunque la nascita della psichiatria nelle istituzioni manicomiali ci mostra l’intreccio inestricabile tra imposizione di un potere e “terapeutica” di quelle pratiche, dove essendo pratiche relazionali e dunque di formazione di soggettività nulla possono avere di neutro, ma c’è sempre un campo di battaglia tra la normalizzazione e le resistenze per la sovversione di questa normalizzazione.

Tornando all’oggi la nostra critica deve puntare molto anche sulla prassi di terapia della “parola” (meglio della relazione) che Deleuze e Guattari avevano individuato come prosecuzione della psichiatria fuori dai manicomi, in una capillarizzazione nella società.
Qui il testo che meglio ci può aiutare a capire è senza dubbio “L’anti-edipo”, dove viene smontato tutto l’apparato freudiano del “teatrino di Edipo”, laddove molto lucidamente i due autori riconoscono a Freud la scoperta dell’inconscio, purtroppo immediatamente rinchiuso e ripiegato sul familiarismo e sul privato del triangolo edipico mamma-papà-bambino, che spezza il legame immediatamente sociale della produzione di desiderio e dei meccanismi dell’inconscio.
Alla scena teatrale del mito di Edipo viene sostituita una visione dell’inconscio come fabbrica di produzione del desiderio, come assemblaggio di “macchine desideranti” che rimandano immediatamente oltre l’ambito familiare verso un campo del sociale e dunque della storia e della politica altrimenti tagliati completamente fuori nella pratica psicoanalitica (di psicoterapia più in generale) dove non esiste rapporto tra quello che avviene sul lettino e quello che avviene fuori, tra una serie di concetti metafisici e a-storici come quelli dell’Edipo e una follia intrinsecamente politica.

Tuttavia non dobbiamo nasconderci che a oggi la psicoterapia in Italia sia rimasta in una piccola cerchia di persone altamente scolarizzate e con disponibilità economiche non da poco visti i suoi costi, e che invece le strutture nate dopo la 180, ovvero i Centri di Salute Mentale, siano nient’altro che dei distributori di psicofarmaci con una presenza di psicologi ridicola rispetto al numero di pazienti e molti psichiatri completamente a digiuno di psicoterapia, quindi anche incapaci di indirizzare verso queste pratiche terapeutiche i propri pazienti.

E qui si apre una situazione in cui bisogna riuscire ad evitare sostanzialmente due posizioni: da un lato il pregiudizio diffuso verso l’efficacia di queste pratiche (che lasciano come uniche forme terapeutiche i farmaci e i ricoveri), dall’altro la neutralità di un eventuale welfare psicologico, che si inserisce in un dibattito più ampio.

Cosa sarebbe in effetti la difesa del pubblico oggi nel campo della sofferenza mentale? La difesa delle strutture di normalizzazione che abbiamo sotto i nostri occhi?

Nessuna difesa del pubblico può essere qualcos’altro dalla difesa dell’esistente e dunque anche dei processi di normazione e controllo promossi dalle strutture del pubblico (come del privato); semmai qui bisogna far emergere pratiche del comune e dell’autogestione, reclamando allo stesso tempo non solo la fine dei tagli ma tanti soldi per l’applicazione della riforma Basaglia rimasta sulla carta, perché a oggi troppi malati sono lasciati sulle spalle delle famiglie (o della solitudine nelle nostre metropoli) senza alcun tipo di aiuto, ed è su questo terreno che i reazionari provano a rialzare la testa, sfruttando questo disagio reale per provare a riportare indietro l’orologio della storia.

Ovviamente non attestarsi sulle posizioni di difesa del pubblico non significa non riconoscere che le pratiche di autogestione dovranno partire anche da tanti medici e infermieri, che hanno un portato di saperi e competenze indispensabili ad affrontare queste situazioni, e che magari trovano nell’organizzazione e strutturazione attuale dei servizi di salute mentale tanti blocchi, ostacoli e situazioni di mortificazione delle potenzialità che invece un terreno di gestione comune può portare alla luce.

Allo stesso tempo si deve stare anche molto attenti a delle posizioni che possiamo definire “idealiste” e scollegate dalle contraddizioni che la materialità della sofferenza mentale ha, come quelle della tradizione di una parte dell’anti-psichiatria su farmaci e ricoveri ritenuti esclusivamente come mezzi di normazione: non è così, anzi in molti casi senza l’aiuto farmacologico o di un ricovero breve non si potrebbe nemmeno cominciare un percorso di psicoterapia.

Dunque la nostra risposta deve essere lucida e precisa: noi vogliamo subito i soldi ma non per farli gestire dallo stato in questo sistema di normalizzazione intrinseco alle pratiche terapeutiche ma per agganciare queste ultime ai più ampi processi di soggettivazione che proviamo a costruire, guardando al meraviglioso laboratorio argentino dove nella rivolta del 2001 i gruppi di analisi divennero luoghi in cui provare immediatamente a politicizzare una pratica terapeutica che dietro il velo della neutralità nasconde l’accettazione passiva dell’esistente, di questo mondo che viviamo inteso come l’unico possibile e invece da cambiare alla radice.

Inoltre dobbiamo tenere presente che le pratiche di psicoterapia stanno in quell’alveo di produzione di soggettività, ovvero di quelle pratiche che non producono beni materiali ma forme e valori “etici” e di comportamento, al pari della formazione e dell’università, che abbiamo imparato essere dei punti cardine della sovversione del capitalismo contemporaneo.

Bisogna riaprire un dibattito pubblico in questo campo che sia propedeutico a delle vertenze e delle lotte dopo troppi anni di silenzio assoluto, senza lasciare nessuno spazio ai reazionari di vario ordine e grado: aprire una campagna per affossare questo disegno di legge potrebbe essere l’inizio.

(da Uninomade)