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Opinioni / (Tele)visioni e abbagli sui fuochi inglesi

La ricognizione di un nostro redattore tra alcune delle immagini proposte dai media sui riots inglesi, nel tentativo di uscire dalle categorie preconcette e facili condanne.

10 Agosto 2011 - 14:49

“Non reclamano nulla”. “E’ la rivolta dei disperati”. “Rivolta morale”.

I commenti sui media mainstream sugli avvenimenti che stanno sconvolgendo l’Inghilterra in queste notti sono un immenso déjà vu.

“Rivolta di emarginati”. “Jacquerie”. “Impolitica o prepolitica”.

Già si tenta di tracciare profili, dare spiegazioni, assumere a paradigma, sulla scorta delle esperienze passate, prima di tutte la Rivolta delle Periferie francesi del 2005.

Ed indubbiamente i primi significati che ci arrivano dall’isola di Churchill ricordano da vicino la dinamica dei fuochi che sconvolsero la Francia sei anni fa.

Un ragazzo morto a seguito dell’intervento della Polizia. Una gestione farraginosa delle informazioni da parte delle forze dell’ordine e delle istituzioni. La rabbia di familiari, parenti, amici, “fratelli” di quartiere. I primi riots, nella notte di Tottenham. Si fa giorno e le immagini rimbalzano sui telegiornali nazionali, ma soprattutto sui media globali della Rete. Cala la sera, è di nuovo fuoco e, stavolta in maniera più massiccia, saccheggi.

La terza notte (esattamente come in Francia nel 2005) i riots di espandono: Bristol, Londra, e ancora Birmingham, Leeds, Manchester, Liverpool.

Sono pietre, fuochi e vetrine devastate, supermercati e negozi di beni di consumo (telefonini, vestiario, tecnologici) saccheggiati.

E qui sta, a chi ha memoria, la prima differenza con la Francia del 2005.

Nelle banlieues francesi si attaccavano scuole, biblioteche, sedi di municipi e, in grandissima quantità, auto, date alle fiamme a centinaia, a migliaia.

Ad un primo sguardo, sicuramente distante e per forza di cose filtrato dai media a cui abbiamo accesso, la rivolta di Londra assume immediatamente un carattere economico, materiale, laddove quelle francesi sembravano invece “morali” o anti-istituzionali.

Ciò non ha niente di sconvolgente: in periodo di crisi economica, di fronte a politiche annunciate di austerità e sacrifici, la merce è oggi il simbolo del conflitto sociale che accomuna Paesi ieri inavvicinabili, come la Tunisia e l’Egitto con gli Stati europei più “avanzati”.

Nel 2005, in piena crociata anti-immigrazione e dentro le politiche di discriminazione, la rivolta si è scagliata contro i simboli di quel potere che emarginava, controllava, reprimeva.

Oggi, assume un carattere più materiale, ma soltanto perché è diventata materiale la Crisi sulla pelle dei poveri.

In ogni caso, la matrice “politica” è palese. “politica”, con la p minuscola, perché se il quadro d’insieme parla di una crisi economica di scala mondiale alla quale si tenta di rispondere un po’ ovunque con politiche nazionali e regionali di ristrettezza, di tagli e “lacrime e sangue”, è la vita della gente, ormai, la linea del fronte sulla quale impattano le conseguenze di questi eventi globali.

Secondo. Chi sono i rivoltosi?

Ho letto a destra e a manca definizioni, supposizioni, letture ideologiche e anche un po’ preconcette. Che siano poveri è pacifico. Che la maggior parte di quelli che hanno praticato materialmente i riots siano giovani è facilmente intuibile, se non quasi scontato, se non altro per ragioni fisiche. Ma alcune categorie ormai abusate dopo le rivolte francesi non mi convincono.

“Emarginati”. “Delinquenti”.

In un’intervista pubblicata su Il Fatto Quotidiano lo storico John Foot sembra voler scacciare questa etichetta. “Qui (in Inghilterra) non ci sono le banlieues. Poveri e ricchi vivono negli stessi quartieri. E qualche volta questi mondi inconciliabili entrano in conflitto”.

Questo spiegherebbe anche i saccheggi, rivalsa “di classe” proprio contro quei “ricchi-modello irrangiungibili” e nello stesso tempo rispedirebbe al mittente l’accusa di chi, generalizzando i pochi fotogrammi mandati sulle Tv nazionali, parla di “delinquenti, gangs, giovani sbandati, criminali”.

Altri testimoni oculari “esteri” raccontano di aver visto intere famiglie scendere in piazza e incitare i giovani alla rivolta, al saccheggio.

Fonti “diaboliche” (perché perseverano nella loro ricerca di complotti, capi espiatori, terroristi e “capi” – Il Giornale, ndr) parlano con clamore della presenza di anarchici e della partecipazione anche degli studenti che avevano invaso le strade questa primavera nelle dure manifestazioni contro i tagli. Se questo fatto venisse confermato, qui avremmo un’altra sostanziale differenza con le banlieues francesi: la generalizzazione, anche verso aree manifestatamente politiche, dei moti. In Francia aveva quasi stupito l’assenza della sinistra, anche extra-parlamentare dagli scontri di strada (anche se poi molti singoli militanti hanno raccontato di esserci stati, o di essersi sentiti comunque vicini ed orgogliosi di quanto i loro coetanei stavano facendo).

Ne sentiremo ancora, e delle belle, credo, ma se questi primi elementi venissero anche solo in parte confermati, avremmo per una volta un quadro realistico: se sono “poveri in rivolta”, non ha senso stare a guardare il dato anagrafico, generazionale o professionale. Le rivolte sono eventi “speciali” proprio perché bruciano i confini, ivi compresi quelli stabiliti da esperti e commentatori, tra le persone. Detto ciò, la congiuntura economica, le lotte contro le politiche di “lacrime e sangue”, la violenza mortale di chi deve, per funzione, “controllare i poveri”, rappresentano evidentemente fattori non emendabili del quadro d’insieme nel quale questi eventi si svolgono.

Molto probabilmente questa rivolta durerà ancora per qualche settimana, ma difficilmente raggiungerà l’intensita e la coscienza delle rivoluzioni arabe. Ciò nonostante mette davanti agli occhi di tutti una questione lampante: continuare ad aumentare la povertà con misure di austerity che colpiscono le classi più basse porterà a sempre nuove sollevazioni e sempre più intensa rabbia covata nei sobborghi delle metropoli europee.

Redcat