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Opinioni / Taranto, una storia di alternativa

Due commenti sulla contestazione nei confronti del sindacato: “Il paradosso del treruote: una storia di alternativa” (da Uninomade) e “Sindacati alle cozze e classe operaia in «u tre rote»” (da Sconnessioni precarie).

05 Agosto 2012 - 14:58

(da Uninomade)

Taranto, il paradosso del treruote: una storia di alternativa

di Francesco Ferri*

Due emozioni distinte segnano il tempo di una mattinata intensa, quella del 2 agosto, che genera un possibile punto di non ritorno per i movimenti – non solo locali – e un’opportunità per tutti, con la contestazione diretta al comizio unitario delle organizzazioni sindacali e la forte presa di parola collettiva di un comitato nato tutto al di fuori delle rappresentanze politiche e sindacali.

La prima emozione – un insieme di tensione, attesa per il divenire moltitudine e fiducia nel possibile – avvolge l’aria intorno al punto di ritrovo degli eretici, estranei alle litanie dei dirigenti sindacali e politici. È il segno palpabile di un desiderio che si realizza collettivamente, prende forma in uno spezzone autonomo rispetto al discorso dominante e si mette in cammino.

La seconda sensazione ha invece il segno chiaro e limpido di un lunghissimo istante di gioia, capace di avvolge tutti coloro che, dopo la possente presa di parola collettiva, proseguono il corteo lungo via D’Aquino, si incontrano in Piazza Giordano Bruno e, sulle note dei 99 Posse e di Rino Gaetano, si perdono in salti ritmati, abbracci tra estranei e pianti di libertà.

In mezzo c’è stato il manifestarsi di un evento, cosi chiaro e limpido che per una volta anche i tentativi di narrare altro rispetto alla realtà, attribuendo l’esito della giornata a poche centinaia di persone, ai cobas, e ai centri sociali, viene travolto dall’emersione di un discorso di verità così netto e rigoroso da rendere infruttuoso il triste chiacchiericcio dei contestati.

Un gruppo disomogeneo di operai (aumentati esponenzialmente con l’avanzare del corteo) insieme ad altre categorie professionali, disoccupati, precari e studenti e ha prima preteso e poi preso la parola, durante il comizio conclusivo della manifestazione intersindacale. Nessun atteggiamento brutale, nessun comportamento barbaro, nessuna prepotenza: solo l’avanzare preciso e inarrestabile di una moltitudine in divenire che, senza titubanze, tra gli applausi di una rilevante parte della piazza sindacale (come riportato da giornalisti locali e nazionali non allineati) si è materializzata davanti ad un palco tremendamente distante, sordo, vuoto. Per una volta, anche Repubblica è costretta ad ammettere come non fosse presente “nessun black bloc, né no global. La contestazione alla manifestazione di Cgil Cisl e Uil ha le facce stanche di operai Ilva”.

Ciò che resta della giornata di mobilitazione è l’emersione di un discorso di dignità, cosi preciso, spontaneo e netto, da coinvolgere nella contestazione anche chi era in piazza per ascoltare i sindacati, addirittura qualcuno del servizio d’ordine della Cgil. Non solo: allo stesso tempo la giornata del 2 segna l’inizio di una narrazione autogestita dei propri desideri da parte dei tantissimi che, dopo il proprio intervento politico, scelgono di celebrare altrove, in forma separata, i propri riti, disertando la piazza del comizio dei sindacati, che inesorabilmente si svuota.

Bonne nuit. Al momento dell’ingresso in piazza dello spezzone autogestito, il segretario generale della Fiom Landini si apprestava ad iniziare il suo intervento. La circostanza (casuale) suggerisce una riflessione: è il sintomo di un distacco in (inesorabile) fase di ampliamento tra rappresentanza sindacale (tutta) e lavoratori. Ieri anche la Fiom è rimasta travolta dal meccanismo in atto, e le posizioni (parzialmente) divergenti assunte sulla tematica risultano inevitabilmente schiacciate dalla scelta di fare fronte comune con gli altri sindacati, manifestando addirittura insieme anche a chi nei giorni scorsi, rischiando il linciaggio da parte degli operai, ha espresso solidarietà a Riva e continua a sostenerne gli interessi della proprietà dell’Ilva.

La sinistra tutta, ovviamente, reagisce fin da subito in maniera scomposta. Oltre l’avversione atavica per tutto ciò che può essere un frammento di rivolta e di messa in discussione dell’esistente (nella triste convinzione che il mondo si possa cambiare a suon di comunicati stampa e dibattiti) si avverte un certo loro fastidio per il linguaggio usato dagli operai – diretto, fuori dal solito politichese e slegato dalle formule di rito – e per l’orgogliosa volontà da parte del comitato – il peccato originale – di farsi la politica da sé.

Fa specie che chi fino a ieri ha (stra)parlato di Syriza oggi condanni la mobilitazione, facendo finta di ignorare che il partito della sinistra greca si è conquistato il suo consenso proprio alimentando le rivolte degli ultimi contro l’1%.

Il treruote è la perfetta rappresentazione di questa frattura: le classi dirigenti proprio non riescono a comprendere come un esercito di sognatori dotato di barcollante apecar abbia ricevuto un consenso così diffuso tanto da diventare, nel giro di qualche ora, il punto di riferimento di chi vuole provare a costruire altro rispetto alle macerie dell’esistente.

Le forme dell’informale. La strada da compiere, in ogni caso, resta in salita, ed è bene ricordarselo sempre. La giornata di ieri rappresenta l’inizio di un possibile percorso di salvezza, ed è necessario ora organizzare fin da subito un discorso politico chiaro e netto sul piano dell’alternativa. Non è affatto il momento della responsabilità: bisogna invece continuare a navigare in mare aperto, mettere sul piatto della bilancia e far pesare gli umori e i desideri di una città che vuole, con estrema dignità, emergere dalla melma dell’esistente.

Da questo punto di vista, la pratica delle assemblea pubbliche in piazza, alimentate da discorsi chiari e netti, e la collocazione fuori dalle rappresentanze (elementi che segnano affinità con lo stile dell’Occupy spagnolo e americano), producono immediatamente un distacco nei confronti di chi, ancora oggi, pensa di poter riprodurre all’infinito la politica della ragion di Stato, degli incontri separati e delle passioni tristi.

Il sottrarsi da ciò che finora ha dominato le nostre vite, rendendole infelici, è un processo, non un evento, e proprio per questo, oltre a raccontare e raccontarsi l’ampiezza e la portata delle gestualità messe in scena il 2, bisogna tener presente che abbiamo, sul piano della mobilitazione e del consenso, tutto da conquistare.

La sottrazione dal discorso dominante è il punto di partenza, necessario ma non sufficiente. Sono già presenti elementi in divenire capaci di essere potenzialmente programma politico, e quanto questo discorso di dignità possa diventare alternativa reale dipende dalla disponibilità di tutti per iniziare la costruzione, a partire dalle miserie dell’esistente, di una città e un mondo nuovi e più giusti.

Si riparte da subito, con un nuovo appuntamento pubblico in piazza (questa volta nel quartiere Tamburi, il più soggetto all’inquinamento, praticamente contiguo con la fabbrica). É il continuare la produzione di un racconto chiaro: i nostri corpi sono qui e si oppongono, inesorabilmente, ai vostri ricatti; continuano a conoscersi e si organizzano.

Non è bastato l’allarmismo su presunti arrivi di black bloc a fermare la partecipazione spontanea allo spezzone eretico in coda al corteo intersindacale, non basteranno le impacciate piroette dei contestati a formulare un ordine del discorso diverso rispetto ai bisogni e ai desideri che si sono affermati pubblicamente in piazza. Non ci nascondiamo più, non retrocediamo, non possiamo permettercelo: è proprio questo il paradosso del treruote. Il suo procedere titubante diventa, improvvisamente, un’andatura possente, sicura, sulla spinta dei desideri del divenire 99%.

* attivista di Occupy ArcheoTower

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(da Sconnessioni precarie)

Sindacati alle cozze e classe operaia in «u tre rote»

di Davide Cobbe e Devi Sacchetto

Quando Maurizio Landini, il segretario generale della Fiom, prende la parola di fronte ai circa 2500-3000 operai dell’Ilva che affollano piazza della Vittoria a Taranto, 2-300 persone riunite nello spezzone dei «Cittadini e lavoratori liberi e pensanti» fanno il loro ingresso rumoroso. La loro moto-ape a tre ruote –dotata di una forza paragonabile a quella dei grandi mostri cingolati degli eserciti, ma attrezzata solo con casse e microfono – ospita a bordo cinque operai assai arrabbiati, e si sistema a non più di venti metri dal palco, continuando a gridare slogan contro il padronato, ma soprattutto contro sindacalisti e autorità appollaiate in tribuna. Non sventolano bandiere, solo uno striscione alle loro spalle: «Sì ai diritti, no ai ricatti: salute, ambiente, reddito occupazione». Nessuno li contrasta, nessuno ne chiede l’espulsione dalla piazza, e intanto gridano slogan: la gran parte degli operai è attenta a che cosa hanno da dire, riconoscendoli come compagni di lavoro. Non c’è rottura operaia, come titolano felici i quotidiani l’indomani. Uova e transenne che volano rimangono nella testa solo di qualche giornalista prezzolato. È una contestazione a viso aperto, di una parte di operai e studenti che in questa piazza riscuote consenso. La tensione nella piazza operaia inizia a salire solo quando poliziotti e carabinieri in assetto anti-sommossa si muovono rinforzando la protezione al palco. Gli operai irruenti e incazzati rimangono fermi lì nel bel mezzo della piazza, gridando i loro slogan e pretendendo di poter parlare dal palco. Non una grande richiesta. Nessuna concessione, però, ma solo mute risposte come quella data il giorno prima dai dirigenti sindacali al gruppo di operai che, con un fax, chiedeva di poter intervenire dal palco. Per una buona mezzora l’impasse è generale: Cgil-Cisl-Uil prima dichiarano chiusa la manifestazione, quindi invitano tutti gli operai a spostarsi nella piazza a lato, ma nessuno si muove. A quel punto gli irruenti decidono di tenere il loro breve comizio da sopra «u tre rote». Essi rivendicano sostanzialmente di non esser più costretti a scegliere tra il diritto alla salute e il diritto al lavoro, come hanno fatto negli ultimi cinquant’anni.Accusano i sindacati confederali di averli lasciati nella solitudine e nell’isolamento e di aver contrastato le poche forme di auto-organizzazione che sono cresciute nel corso di questi anni dentro all’Ilva.

Diversamente da come viene rappresentata, questa giornata tarantina è un momento liberatorio. Un sindacato che nel suo complesso viene delegittimato e costretto alla resa, ma che da domani inizierà di nuovo a lavorare, in larga parte, per la continuazione della produzione, finendo così per sostenere, direttamente o indirettamente, le ragioni del padronato, qui rappresentato da uno degli ultimi padroni delle ferriere, Emilio Riva. Una produzione che si vorrebbe eco-compatible, come scrive la Confcommercio sui manifesti appiccicati alle vetrine dei negozi del centro cittadino e come dichiarano in un sol coro i tre segretari confederali. Cataldo Ranieri, uno di questi irruenti operai, afferma invece: «Noi non possiamo far vedere che abbiamo paura che chiudano lo stabilimento, non abbiamo più paura perché abbiamo conosciuto la morte». La contrapposizione tra lavoro e salute qui sembra posta più dalla sinistra produttivista che dalla destra: «prima il lavoro e poi la salute». Qualche giornalista di Rai 3, forse forte del cognome che porta, aveva già provato qualche giorno fa a mettere all’angolo questi operai chiedendo loro se vogliono che l’Ilva chiuda o che rimanga aperta, cioè – come essi stessi riassumono – se vogliono morire di fame o di cancro. Allora come adesso, essi rispondono candidamente di essere solo operai, di voler vivere e guadagnarsi il pane senza mettere in pericolo la salute: «non sono un politico e non mi occupo di politica», dice senza paura di contraddirsi uno di loro.

Piuttosto, si occupano della loro esistenza operaia: «E ora metteteci anche il tumore nella busta paga» grida Cataldo Ranieri. Quarantadue anni, quattordici di Ilva, otto di tessera Fiom, ora alla Fim da due settimane per ottenere l’assistenza legale per le contestazioni disciplinari. Due figli e una moglie precaria in un call center della città. È lui che i giornalisti identificano come il leader, e che circondano appena scende dal pericoloso strumento squadrista «u tre rote». Il rifiuto degli operai di occuparsi dell’interesse generale, o peggio degli affari del padrone, svela l’ideologia di cui si riveste ampia parte della sinistra in Italia. Mentre, dal palco, Susanna Camusso chiude questa giornata, con gli ormai pochi operai rimasti in piazza, ripetendo il ritornello tanto caro a questi sindacati, oltre che al padronato: il risanamento si dovrà fare con gli impianti in marcia. Un sindacato che si sente in dovere di suggerire al padronato come fare il suo mestiere ha già perso la battaglia culturale, oltre che politica. Intanto, nella stessa giornata, gli impianti, al solito, funzionano come sempre e la banchina del porto i riempiva di laminati.

Su questi operai irruenti la sinistra di questo paese, centrali sindacali comprese, ha già emesso la sentenza: Cobas, estremisti, centri sociali, no-global. Un intellettuale di sinistra sulle pagine locali di un quotidiano nazionale li bolla addirittura come squadristi e utili idioti che non sanno far altro che sfasciare, perché privi di un vocabolario della politica, pieni di incultura. Ohibò! Squadristi organizzati in «u tre rote» affittato per 100 euro da «Antonio u’ siciliano – Traslochi», che lo guida e che nel frattempo si fa un po’ di pubblicità: fa più sorridere che paura. Forse sarebbe il caso di morire di tumore in silenzio per 1.200 euro al mese, lasciando al sindacato la contrattazione. E questi non sono neppure lavoratori migranti sindacalmente ‘ingenui’ che cercano di auto-organizzarsi, come l’anno scorso a Nardò, cento chilometri più a sud. Nelle poche grandi fabbriche del sud, i migranti non sono mai entrati perché il padronato sceglie sempre la sua forza lavoro.

Nell’incapacità di comprendere le trasformazioni che stanno avvenendo non solo a Taranto, ma in tutto il paese, sembra che sia necessario ricorrere a formule facili. Propaganda. Ma questi operai con «u tre rote» entrano nelle contraddizioni profonde delle varie sinistre di questo paese.Chissà cosa avrà pensato Maurizio Landini, che accusa questi lavoratori di voler vivere solo di sussidi statali invece di difendere il proprio posto di lavoro, delle dichiarazioni dei centri sociali del nord-estche plaudono alle iniziative degli operai e cittadini. In molti, sembra di capire, rimangono smemorati. Da queste parti il lavoro rimane ‘a fatia – la fatica –, come davanti a un giornalista si lascia scappare uno di questi irruenti, salvo subito correggersi. No, non è il bene comune, anche se con una disoccupazione che tocca il 30% ognuno cerca di farsi sfruttare, magari senza dover crepare faticando. Fa specie leggere come i leader sindacali ritengano che gli irruenti operai e cittadini avrebbero dovuto organizzarsi una loro manifestazione, quasi che gli operai siano un corpo staccato. Stefano Sibilla, un altro di questi operai, ha le idee piuttosto chiare: «Qua non c’è un’idea di lavoratori divisi. L’idea di lavoratori divisi è solo grazie ai sindacati. Quando un segretario [quello della Fim locale] esordisce a un’assemblea [il giorno prima dello sciopero] di quattromila persone, dicendo che occorre portare solidarietà agli otto arrestati [dirigenti dell’Ilva], che sono quelli che ci hanno sottomesso, che ci hanno minacciato, che ci hanno avvelenato, è un sindacato che o non capisce che il cuore dei suoi lavoratori sta per esplodere o è troppo attaccato al padrone per tradirlo. Non serve che io mi arrabbi: i sindacati di Taranto non funzionano». Che un pezzo di sindacato, così come capi e capetti, sia strettamente connesso al padronato non è certo una novità. Qui forse però bisognerebbe capire le varie responsabilità in tutta questa storia di silenzi e insabbiamenti, su cui i giornalisti come troppo spesso accade in questo paese o sono distratti o sono collusi.

Le etichettature con cui si prova a isolare questa esperienza danno la misura non solo del malessere, ma anche della veloce crescita di consapevolezza e di protagonismo sia operaio sia di una parte importante della popolazione che si nota in questa città. Una classe operaia che fino a pochi giorni fa, trascinata da qualche sindacato complice e da qualcun altro forse troppo silenzioso,sosteneva le ragioni del padrone, e che è sempre stata considerata un po’ «teppa», magari perché assunta tramite le raccomandazioni sindacali, in particolare della Uil, oppure attraverso la parrocchia. Una classe operaia metà contadina e metà sottoproletariato che va allo stadio, invece di frequentare i salotti culturali e di mantenere l’ordine durante le manifestazioni. Una classe operaia meridionale che ha cercato un lavoro in loco per non ripercorrere la dura strada dell’emigrazione. Certo è una classe operaia che non sembra ancora entrata nella post-modernità e non ha certo le stigmate della lotta di classe della gloriosa Mirafiori. Forse c’è giunta con quarant’anni di ritardo, ma sta ponendo ancora una volta la questione dell’irrisarcibilità della condizione operaia provando a unire quanto è solitamente disunito, vale a dire le questioni della produzione di beni e della riproduzione umana.

Il sistema di lavoro all’Ilva consuma a brano a brano la vita umana dei lavoratori come degli abitanti. È su questa irrisarcibilità che sembrano cercare di fare fronte comune questo pugno di studenti, operai e disoccupati per costruire un proprio percorso politico autonomo. Capiscono cosa fanno, capiscono cosa sono. Non sono «dipendenti asserviti al padrone», come sono stati definiti con le migliori intenzioni. La frettolosa proposta di un reddito di cittadinanza velocemente riemersa non risponde nemmeno lontanamente a quanto sta succedendo, perché questi operai stanno già lottando contro il salario, quale misura del loro lavoro e della loro vita. Non sono una «moltitudine oscura e desiderosa di servitù volontaria» a spasso tra i secoli. Negli ultimi giorni hanno fatto un gran salto rispetto solo a qualche giorno fa. Un salto di classe.