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Opinioni / “Lager Libia”

L’accordo italo-libico, sostenuto dall’Unione europea, produce i suoi primi effetti lasciando intrappolate decine di migliaia di migranti subsahariani, e non solo, nel territorio del paese nordafricano. Decine di testimonianze raccontano questo cul de sac.

09 Agosto 2017 - 16:28

di Medici per i diritti umani da Melting Pot

Nel mese di Luglio sono stati 11.322 i migranti sbarcati nei porti italiani; meno della metà rispetto al 2016 (23.552). E’ la prima volta nel 2017 che si registra un calo così drastico rispetto all’anno precedente. L’inversione di tendenza di Luglio sembra essere confermata nei primi sette giorni di Agosto con un numero di migranti sbarcati (1.137) che è meno di un quinto rispetto a quello della stessa settimana dell’anno precedente (5.902).
Si può dunque tirare un sospiro di sollievo davanti a questi numeri che sembrano evidenziare, se non un arresto, una drastica riduzione del flusso migratorio dalla Libia verso l’Italia?
Bisogna rallegrarsi dei primi risultati concreti dell’accordo italo-libico firmato a febbraio scorso dai governi Gentiloni e Serraj, con il sostegno dell’Unione europea?

Si apprende in questi stessi giorni che la guardia costiera libica ha fermato in mare 826 migranti per poi arrestarli e consegnarli all’organismo che si occupa della lotta alla migrazione clandestina. Il collo di bottiglia della rotta mediterranea centrale sembra dunque chiudersi lasciando decine di migliaia, o più probabilmente centinaia di migliaia, di migranti subsahariani, e non solo, nel territorio libico. Ma che cosa sia questo cul de sac è necessario ripeterlo ancora una volta con chiarezza e a gran voce:

è la Libia di oggi, ossia un lager dove si consumano nei confronti dei migranti atrocità degne dei peggiori campi di sterminio del XX secolo. Gli aguzzini di questi lager, dove viene perpetrata la tortura di massa, sono i più svariati: bande e organizzazioni criminali, milizie armate e certamente anche coloro che dovrebbero rappresentare quello Stato che ha firmato gli accordi con l’Italia, ossia poliziotti e militari.

Secondo i dati raccolti quest’anno dalla clinica mobile di Medici per i Diritti Umani (MEDU) che a Roma ha prestato assistenza ad oltre seicento migranti da poco sbarcati in Italia e provenienti dall’Africa subsahariana, l’85% ha subito in Libia torture e trattamenti inumani e degradanti e nello specifico il 79% è stato trattenuto/detenuto in luoghi sovraffollati ed in pessime condizioni igienico sanitarie, il 60% ha subito costanti deprivazioni di cibo, acqua e cure mediche, il 55% gravi e ripetute percosse e percentuali inferiori ma comunque rilevanti stupri, ustioni, falaka (percosse alle piante dei piedi), torture da sospensione, obbligo ad assistere alla tortura o all’uccisione di terzi e ancora altre efferatezze. Questi dati, probabilmente sottostimati poiché raccolti in contesti di precarietà dove spesso non è stato possibile fornire un’assistenza prolungata nel tempo, rappresentano, a nostro avviso, un quadro fedele delle violenze sistematiche a cui vengono sottoposti tutti i migranti che giungono dalla Libia nel nostro paese.

In questo caos libico, dove l’unica cosa che sembra funzionare alla perfezione è l’industria dello sfruttamento dei migranti, “non ci sono campi o centri per i migranti, ma solo prigioni, alcune controllate dalle autorità, altre da milizie e trafficanti” lo afferma lo stesso inviato speciale dell’UNHCR, aggiungendo che in questi luoghi “sussistono condizioni orribili“. Negli ultimi quattro anni MEDU ha raccolto circa duemila testimonianze di migranti sia nei suoi progetti per la riabilitazione delle vittime di tortura sia in interventi di prima assistenza per i migranti vulnerabili (si veda la webmap interattiva Esodi) e sempre le condizioni di detenzione nelle carceri libiche rappresentano uno degli aspetti più raccapriccianti dei racconti dei testimoni.

Qui di seguito solo alcune delle decine di testimonianze raccolte negli ultimi mesi che verranno a breve presentate nella versione aggiornata di Esodi:

“La prima volta che sono partito in mare la guardia costiera libica ci ha intercettato e ci ha riportato a terra. Ci ha condotto in una prigione a Zawia che si chiama Ossama Prison…Quello che differenzia questa prigione dalle altre è il fatto che se si paga il riscatto si è sicuri che si verrà rilasciati, cosa non sempre vera per le altre prigioni. Avvengono infinite crudeltà e torture lì dentro ma finalizzate ad ottenere i soldi, non la violenza diffusa che si vede negli altri posti. Questa prigione viene monitorata da una commissione di europei una volta al mese. Durante la visita mensile le guardie fanno sparire tutti gli strumenti di tortura, le catene e aprono tutte le celle così che sembri un campo profughi piuttosto che una prigione. Poi quando la visita è finita tutto ricomincia come prima”. (X.Y., uomo, Camerun, 25 anni, Hotspot di Pozzallo, Luglio 2017)

“La detenzione più dura è stata in una prigione a Gargaresch, un quartiere di Tripoli. Mi hanno legato insieme le caviglie e i polsi e per i primi 5 giorni mi hanno tenuto così. Non mi davano da mangiare, non mi permettevano di andare in bagno. Venivano e mi picchiavano. Poi mi hanno levato le corde ma non è andata meglio. Per circa un mese mi hanno tenuto nel buio più completo. Mi picchiavano con dei bastoni sul corpo e sotto la pianta dei piedi e tutt’ora non riesco a camminare senza sentire dolore. Mi torturavano con le scosse elettriche. Una volta mi hanno puntato un fucile alla tempia e hanno minacciato di uccidermi. Quando mi sono messo a piangere si sono messi a ridere, non mi hanno sparato ma mi hanno colpito al capo col calcio del fucile”. (M.K., uomo, 30 anni, Bangladesh. Hotspot di Pozzallo, Luglio 2017)

“Non so il nome della prigione ma per sei mesi sono stato detenuto in un carcere non distante da una strada che da Sabha conduce a Tripoli. Eravamo tanti e nella cella non c’era spazio a terra per dormire. Le guardie portavano poco cibo e acqua disgustosa. Mi hanno picchiato col bastone e col fucile in diverse parti del corpo. Le guardie erano armate e violente e ci colpivano senza pietà. Sparavano nel mucchio e uccidevano a caso i detenuti per terrorizzarci. Ho subito violenze sessuali continue ed hanno usato anche una fiamma per bruciarmi sulle braccia. Non c’era acqua per lavarci, il fetore era insopportabile e ricordo ancora le urla di paura e di dolore degli altri detenuti”.
(I.S. uomo 22 anni, Costa D’Avorio. Cara di Mineo, Aprile 2017)

Lo scorso Febbraio, commentando gli accordi tra Italia e Libia, sostenevamo che il governo italiano (con l’accordo italo-libico) e tutta l’Unione europea (dopo l’incontro di La Valletta) avessero preso la direzione sbagliata. Denunciavamo in particolare che l’accordo avesse come unico vero obiettivo quello di fare muro nel Canale di Sicilia per bloccare gli sbarchi in Italia senza preoccuparsi dei suoi effetti collaterali ossia della sorte di centinaia di migliaia di donne, uomini e bambini destinati a rimanere intrappolati nell’inferno libico. Quanto sta avvenendo oggi conferma purtroppo in pieno questo tragico scenario: la Libia attuale non è un luogo sicuro bensì un luogo di morte. Sebbene sembri incredibile, è oggi ancora necessario ribadirlo.

Non si vuole qui certo contestare il diritto-dovere di uno Stato a governare i flussi migratori, ma piuttosto ribadire che ciò debba avvenire senza mai compromettere la salvaguardia dei diritti umani fondamentali. E’ un fatto che l’accordo italo-libico stia oggi violando questo principio e che la gravità dei crimini commessi contro uomini, donne e bambini migranti a poche centinaia di migliaia dalle nostre coste impongano una risposta da parte dell’Italia, dell’Unione europea e di tutta la comunità internazionale che vuole ancora riconoscersi nel diritto. In teoria l’accordo italo-libico del febbraio scorso prevede anche il miglioramento delle condizioni di quelli che dovrebbero essere i centri di accoglienza in territorio libico, finanziando l’acquisto di medicine e attrezzature mediche e la formazione del personale. Tale parte dell’accordo è rimasto con tutta evidenza lettera morta. Come intendono intervenire nell’immediato l’Italia e l’Unione europea affinché le proprie strategie di controllo dei flussi migratori non le rendano di fatto complici delle violenze e delle atrocità di massa commesse in Libia?
Cosa intende fare l’intera comunità internazionale oltre ad assistere passivamente ad una tragedia che rimarrà nella storia delle migrazioni?