Opinioni

Opinioni / Di ritorno da Milano

I comunicati diffusi da collettivi e spazi sociali cittadini dopo il corteo NoExpo del Primo Maggio nel capoluogo lombardo.

05 Maggio 2015 - 11:19

NoExpoMayDay - © Michele LapiniMercoledì 6 Maggio ore 18.00 Via Zamboni, 38

ASSEMBLEA #SpazioAgliStudenti

Dalla mayday NoExpo di Milano ai territori: apriamo nuovi spazi di conflitto, cultura e autogestione.

Da Bologna siamo partiti a centinaia tra studenti, occupanti, facchini e precari verso milano, in un primo maggio che ha saputo esprimere con forza il netto rifiuto al modello di sviluppo proposto da expo: precarietà, sfruttamento, cemento e devastazione dei territori.

La mayday NoExpo ha rigettato al mittente quel modello di sviluppo, e ora con la stessa energia torniamo nella nostra città verso nuove giornate di lotta e conflitto.

Con questa nuova assemblea di Spazio agli Studenti apriamo il dibattito per costruire collettivamente nuovi spazi di riappropriazione, cultura e autogestione in zona universitaria.

Riprendiamoci tutto!

Collettivo Universitario Autonomo

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Dalla parte del mostro: sul primo maggio e oltre

Iniziamo con un punto fermo, con una scelta di campo, con un’assunzione di parte: noi siamo stati nello spezzone delle lotte sociali, in quello spezzone cioè che a Milano si è organizzato per provare a determinare punti di rottura con l’Expo e la sua logica. Solo a partire da questa presa di posizione è possibile cominciare a discutere delle valutazioni del primo maggio.

La prima valutazione da fare è che il primo maggio contro l’Expo è stata una giornata importante. Lo è stata per la partecipazione, per i livelli di conflitto, per la multiforme tensione di rifiuto espressa e anche per le questioni che pone. I commenti a caldo e del giorno dopo circolati nei media ed espressi dai rappresentanti politici non stupiscono, vi è una ricorrenza che non merita qui particolare attenzione: è infatti inutile sprecare parole sui tentativi di criminalizzazione, falsificazione e mistificazione, ognuno fa il suo lavoro per la parte a cui fa riferimento. L’elemento che va invece sottolineato è un altro: l’ormai completa autonomizzazione di media e istituzioni politiche rispetto al contesto sociale. Dentro la crisi, gli uni e le altre si pongono sempre meno il problema di consenso e di comprensione dei contesti sociali (anche di quelli da controllare e all’occorrenza criminalizzare), assumendo invece l’irreversibile distacco rispetto ai soggetti colpiti dalla crisi. Il loro problema diventa esclusivamente quello del mantenimento e riproduzione delle proprie forme di comando e privilegio: il potere diventa definitivamente autistico. Questa autonomizzazione si riflette anche tra opinionisti e realtà di movimento che, di fronte alle profonde trasformazioni e terremoti prodotti dalla crisi, scelgono la scorciatoia dell’autoreferenzialità. Meglio conservare quello che si ha: se non è il potere, almeno è una cattedra da cui parlare o una struttura da mandare avanti. Non è un caso che più o meno tutti parlano delle “ragioni del No Expo oscurate”, anche coloro a cui di quelle ragioni è mai fregato nulla. Come se le ragioni vivessero disincarnate dai corpi che lottano per affermarle, nel cielo delle idee e non nella dura materialità della terra.

Ecco allora la specularità delle versioni. È stata rovinata la festa, ci dicono in coro Renzi e Repubblica, Mattarella e il Corriere della Sera, riferendosi alla loro fiera internazionale. È stata rovinata la festa, ripetono in coro “il manifesto” e vari compagni ricordando i bei tempi delle sfilate colorate. Ma piaccia o non piaccia, quelle sfilate non torneranno più, perché legate a un’altra fase e ad altri pezzi di composizione sociale. Perché in mezzo c’è una crisi divenuta permanente, un impoverimento di massa, precarietà e disoccupazione come elementi strutturali. In chi concretamente non arriva alla fine del mese, in chi non ha i soldi per pagare l’affitto, in chi per tirare a campare è costretto a lavoretti per nulla creativi e completamente serializzati, nei giovani che di un futuro non hanno nemmeno sentito parlare, la voglia del colore tende a spegnersi.

Una parte di queste figure era presente al corteo del primo maggio. Molti di questi componevano lo spezzone delle lotte sociali, forse il più numeroso, sicuramente quello più giovane e più europeo – dell’Europa reale, non di quella che popola i sogni degli europeisti di sinistra. Chi parla riduttivamente di “blocco nero” è ancora una volta ostaggio della mania dei colori: una felpa è una felpa e un passamontagna è un passamontagna, indipendentemente dal loro colore servono innanzitutto per impedire l’identificazione. Sotto – ed è la sostanza che conta – vi sono la determinazione politica a rompere divieti e compatibilità, la rabbia sociale di chi non accetta le condizioni di impoverimento e privazione imposte. Chiariamo ancora una volta: la rabbia non è né buona né cattiva, è un dato di realtà. Non è in sé un progetto politico, ma è difficile immaginare un progetto politico che non dia forma anche alla rabbia.

Lo spezzone delle lotte sociali si è mosso in questa direzione, provando a praticare l’obiettivo (la conquista dell’agibilità del centro cittadino) e rivendicando un legittimo uso della forza. In questa direzione, è definitivamente tramontata quella fobia dell’immaginario simbolico che per tanti anni – anni molto diversi da questi, ripetiamo – ha caratterizzato il movimento e le sue pratiche, nella ricerca del connubio tra conflitto e consenso, che talora diventava connubio tra simulazione ed elezioni. Quell’immaginario ha condotto a una sostituzione dei soggetti sociali con una loro rappresentanza simbolica; ora, nella durezza della crisi, i primi irrompono sulla scena, in forme spesso caotiche e contraddittorie, non colorate e maledettamente crude. Il problema che adesso ci dobbiamo porre è come evitare di ricadere in altre dimensioni puramente simboliche, in cui il luccichio della vetrina da infrangere sostituisce quella dei media da compiacere. Rompere con l’Expo significa anche rompere con l’attrazione per la merce-evento. Colpire un simbolo fa male alla controparte solo se si incarna in un processo di lotta e possibilità sociale (e ovviamente colpire una gelateria non fa male nemmeno ai diabetici). L’obiettivo da praticare il primo maggio erano le recinzioni d’acciaio e di scudi che impedivano di conquistare il cuore della metropoli, e i livelli significativi del conflitto si sono raggiunti nelle ripetute occasioni in cui migliaia di persone hanno provato a forzarle. Senza arretrare di fronte ai lacrimogeni e senza farsi abbagliare dai luccichii, che distraggono lo sguardo e non permettono di praticare l’obiettivo.

Ancor più dopo il primo maggio di Milano, è evidente come l’alternativa sia tra una scommessa in avanti e una scelta di marginalità. E in questa fase marginalità vuole innanzitutto dire ritrarsi nei propri orticelli di fronte ai nodi sociali e politici, scegliere cioè di adagiarsi nei propri colori e rifuggire da una composizione mostruosa, che non si capisce e spaventa. Chi parla di devastazione di Milano o è in malafede, oppure non ha idea di cosa sia la devastazione della crisi. In ogni caso, preferisce guardare altrove, al proprio ombelico, alle proprie certezze, a quello che non c’è più. A chi parla di movimento asfaltato chiediamo: chi è questo movimento a cui fate riferimento? Le sue rappresentanze politiche? Chi aspetta il sole della coalizione sociale? Chi ha nostalgia di quando i precari erano creativi e colorati? Prima ancora di ogni critica o distanza politica, c’è un problema di composizione di riferimento: la composizione a cui fanno riferimento coloro che piangono sulla MayDay No Expo rovinata è marginale politicamente, non espansiva, certo non scomparsa ma in tendenza non passano da lì i potenziali punti di rottura e generalizzazione. Il punto è che la crisi ha prodotto nuovi soggetti, caotici e mostruosi com’è la crisi, che possono passare dall’accettazione del lavoro gratuito al nichilismo della vetrina fine a se stessa. Ma è di qui che dobbiamo passare, dalla scelta del mostro: non per esaltarlo, ma per trasformarlo. Per trasformare cioè l’apparente rassegnazione in rifiuto e la rabbia in progetto di rottura e costruzione di autonomia. Chi non accetta questa sfida e si volta da un’altra parte, come è successo a Milano, non solo sta al gioco dei buoni e dei cattivi, ma non dà alcun contributo alla trasformazione di quelli che – belli o brutti che siano – sono i soggetti reali.

Il primo maggio contro l’Expo non è stato un riot, perché le rivolte sono fatte da soggetti sociali che si ribellano alla condizione di marginalità, non da un insieme di realtà militanti che si coordinano e provano a dare direzione all’eccedenza. Le rivolte avvengono, le lotte si organizzano. Le une possono essere alimento delle seconde, nella misura in cui la politicità delle prime trova forma organizzata e si generalizza. Sicuramente, però, dobbiamo porre i problemi all’altezza di una fase storica in cui la rivolta – dalle banlieue a Londra fino ad arrivare a Baltimora – diventa piano della politicità per fette crescenti del proletariato metropolitano. All’oggi sappiamo quello che non c’è più (e onestamente non ne sentiamo neppure la nostalgia), non abbiamo ancora trovato quello che ci può essere – e di questo ne sentiamo l’urgenza. Quello di cui c’è bisogno sono nuove pratiche di lotta e radicamento progettuale adeguate alla fase e alla composizione sociale colpita dalla crisi. C’è bisogno di reti e connessioni non solo sull’evento, ma sostenute dalla produzione di discorso politico avanzato e metodi comuni, da tensione strategica e intelligenza tattica.

A chi osserva il proprio ombelico, voltando sdegnato lo sguardo dal mostro per cecità o opportunismo, diciamo con il buon senso materialista: benvenuti nel deserto del reale. In questo deserto dobbiamo organizzarci, perché l’unico mondo possibile è quello che passa dal rivoluzionamento di quello che viviamo. Ben sapendo, come ci ricordava il leader delle pantere nere Huey P. Newton, che “il deserto non è un circolo. È una spirale. Quando siamo passati attraverso il deserto, niente sarà più lo stesso”.

Ps: due giorni dopo la manifestazione contro l’Expo, a Bologna insieme a tante e tanti abbiamo contestato il ducetto Renzi a una Festa dell’Unità svuotata di qualsiasi legittimità. Abbiamo resistito alle cariche della polizia e al dispositivo di militarizzazione del PD, abbiamo dimostrato ancora una volta che attaccare il partito della nazione è possibile e necessario. E che l’opposizione alla logica dell’Expo si costruisce il primo maggio a Milano e tutti i giorni sui nostri territori.

Hobo

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Questioni di prospettiva. Un giudizio politico su Expo, Mayday e dintorni

Il primo maggio è passato, lasciando dietro di sé qualcosa di più delle macchine bruciate, delle vetrine rotte, degli abiti neri abbandonati per strada. Oltre all’Expo trionfalmente aperta, il primo maggio lascia dietro di sé l’immagine plastica di un movimento che, nonostante sia riuscito a mobilitare 30.000 persone per la Mayday, si scopre politicamente impotente.

Alla fine è successo quello che tutti prevedevano, anche se molti avevano detto di volerlo evitare: la logica dell’evento si è imposta su quella del processo, della costruzione, dell’accumulazione e della condivisione di forza. Ora scoprire che i media mainstream si comportano da media mainstream è quanto meno fuori luogo. Ora il botta e risposta contabile sui costi di Expo paragonati ai costi dei danneggiamenti lascia francamente il tempo che trova. Ora risolvere tutto facendo appello alle ragioni della spontaneità arrabbiata è quanto meno insufficiente. Ciò che è successo non può essere risolto grazie a un’estetica del riot che non riesce a coprire i limiti collettivi di progettualità politica, anche perché la definizione corrente di riot si avvicina sempre più pericolosamente a quella di una rivolta magari intensa, ma istantanea e destinata a essere riassorbita senza particolari problemi dall’oggettiva e dispotica supremazia militare e simbolica dello Stato. Se il riot esiste solo nel giorno in cui avviene, a cosa serve il riot?

Sarebbe però limitativo ricondurre i limiti di azione politica che si sono mostrati in piazza solo a ciò che è successo in piazza. Forse vale la pena ripensare l’intero discorso prodotto per l’occasione dell’Expo negli ultimi mesi. A noi pare evidente che se, di fronte allo slogan «Nutrire il pianeta», la risposta è il veganesimo coatto di certi centri sociali, difficilmente si riesce a opporre un discorso globalmente efficace alle chiacchiere edificanti che scorrono e scorreranno attorno all’Expo. Evidente è invece la difficoltà di produrre un discorso politico all’altezza dell’occasione. Il movimento italiano sembra pagare un suo specifico e presuntuoso provincialismo rispetto al quale non è riuscita a stabilire un contrappeso significativo nemmeno la presenza attiva all’interno di reti internazionali, come è stata per molti di noi l’esperienza di Blockupy per la contestazione della Bce a Francoforte. Sarebbe necessario, infatti, cogliere l’occasione dell’Expo, in modo da sollevare e far agire argomenti in grado di opporsi pubblicamente alla celebrazione del cibo come merce globale. Invece non siamo riusciti finora nemmeno a lasciar intravedere un punto di vista precario, migrante e operaio oltre che sullo sfruttamento del lavoro dentro all’Expo, anche su un tema che non riguarda solamente come si mangia in Italia o in Europa, ma anche e soprattutto chi mangia, quanto e quando in molte altre zone del mondo. Sarebbe letale prendere sul serio i proclami altisonanti di Renzi, che vogliono a tutti i costi fare dell’Expo una questione italiana. Abbiamo invece assistito a proposte e dibattiti su come dovrebbe essere Milano in questi sei mesi, su come ci si dovrebbe comportare nel cortile di casa, sulla dieta politicamente più appropriata. Il tema della città è oggi certamente centrale, ma lo è nella sua scala globale, non nel qui ed ora delle singole identità cittadine. Il grande capitale multinazionale costruisce una vetrina mondiale, coloratissima e frequentatissima, per dire che sì, c’è magari qualche problema, ma che a breve darà da mangiare a tutti. Noi, che non abbiamo nemmeno approssimato un discorso realistico sulla questione globale della riproduzione materiale dell’esistenza di alcuni miliardi di poveri, precari, migranti e operai, scambiamo quattro vetrine del centro di Milano per le vetrine «simbolicamente» più rilevanti. Che poi le vetrine prescelte e le azioni compiute siano sempre le stesse da anni, la dice lunga sull’indifferenza per un’occasione che dovrebbe invece essere colta, proprio per la sua complessità e per il suo carattere immediatamente globale.

Non stupisce dunque che ora, dopo la Mayday, ci troviamo a cercare il giusto equilibrio tra conflitto e consenso, in un modo che però rischia implicitamente di separarli. Ci sono alcuni che praticano il conflitto, per una rabbia più profonda o per una maggiore intensità politica, e altri che non lo fanno. Non si capisce bene se questi ultimi si trovino in una sorta di anticamera della lotta, dalla quale possono imparare come ci si dovrebbe comportare, o se invece sono ridotti semplicemente alla platea che dovrebbe approvare i comportamenti altrui. Parlare di consenso e conflitto ha senso nella misura in cui si sovrappongono quotidianamente e non vengono evocati solamente quando riguardano i comportamenti di piazza. Riservare il conflitto allo scontro con la polizia, con le vetrine e con le macchine non restituisce nemmeno lontanamente il livello di violenza e i sordi livelli di conflitto che si dispiegano quotidianamente nei luoghi di lavoro, sulle vie delle migrazioni e nei quartieri. Una violenza e un conflitto che non sono solo subiti passivamente, ma anche praticati con intelligenza e continuità. L’idea che un po’ di violenza di piazza possa servire da innesco a chissà quale presa di coscienza collettiva, così come quella che l’insorgenza di piazza sia l’unica forma possibile di espressione collettiva per le esperienze esistenti, sono semplicemente infantili. Il conflitto nelle piazze non può essere la rappresentazione esemplare di una conflittualità che si considera altrimenti assente o insufficiente. In questo caso saremmo di fronte all’espropriazione della possibilità di azione di massa e anche all’impossibilità pratica di costruire forme di conflittualità condivise.

D’altra parte anche sostenere che chi rompe tutto lo fa per una spontanea e incontrollabile rabbia, senza la pretesa di rappresentare nessuno, non si accorge che una simile individualizzazione dei comportamenti finisce per essere il rovescio, l’opposto simmetrico, dei comportamenti assolutamente individuali che il neoliberalismo pretende da ognuno di noi. Non è forse il caso di rompere con la condizione quotidiana di isolamento, invece di rappresentarla fedelmente anche durante le manifestazioni collettive? Ma già ragionare a partire da questa spontanea individualizzazione non coglie tutta la portata del problema. Qualche mese fa, prima dell’assedio e dei blocchi di Francoforte, è uscito un documento che annunciava il fallimento del movimento no-global e l’inutilità di ogni tentativo di costruire reti organizzative transnazionali, declassate direttamente a «reti solidali», così come chiunque provava a organizzarle era bollato come burocrate e con il marchio d’infamia di voler essere «ceto politico di movimento».

Ecco, secondo noi la differenza sta esattamente qui. Ed è a partire da questa differenza che ognuno deve assumersi le proprie responsabilità politiche. Qui non si tratta di dividere i buoni dai cattivi e nemmeno gli arrabbiati dai pavidi. Qui si tratta di evidenziare, e in caso discutere, una specifica differenza di prospettiva politica. Qui si tratta di dire chiaramente che c’è chi pensa che sia necessario costruire quotidianamente connessioni dentro le lotte e le molteplici figure che in esse si esprimono, anziché replicare attivamente l’individualizzazione altrimenti imposta. Qui si tratta di stabilire collegamenti non tra la propria singolare quotidianità e il riot di un giorno, ma tra le molteplici e disomogenee singolarità che ogni giorno sono costrette dentro e contro il lavoro precario operaio e migrante. Qui si tratta di ribadire che tutto questo non è possibile su un piano locale e che la dimensione europea è il suo minimo piano di sviluppo. Qui non si tratta dell’espressione immediata di un’identità sovversiva, ma dell’assenza di ogni identità consolidata e della difficoltà quotidiana per trovare forme collettive di espressione. Qui non si tratta di far esprimere qualcosa che già c’è, ma di costruire lo spazio per qualcosa che ancora non c’è, proprio perché ancora non riesce a trovare una forma collettiva di espressione. Noi pensiamo che questo sforzo verso il collettivo sia il primo punto all’ordine del giorno. Altri non lo pensano e si comportano di conseguenza. Sarebbe perciò il caso di smetterla con la facile critica dei giornali, con gli opinionisti occasionali che sono bravi quando ti danno ragione e canaglie quando ti danno torto, con il gioco incrociato delle citazioni. Sarebbe il caso di parlare seriamente delle prospettive politiche che si vogliono perseguire. Tutto il resto rischia di essere poco interessante e persino indifferente per i moltissimi che condividono la nostra condizione.

∫connessioni Precarie