Attualità

Medioriente / L’assalto alla Freedom Flotilla: il racconto di Manuel Zani

L’attacco alla Mavi Marmara, le uccisioni cruente, le accuse all’Ihh. Testimonianze dirette e parte di un video inedito.

09 Agosto 2010 - 17:26

(da Infoaut)

Verso il 10 luglio seguo Manolo a Istanbul assieme ad Andrea, un amico cameraman. Ci stiamo recando in Turchia per partecipare alla conferenza stampa del nascente gruppo “Freedom Flotilla Press”, composto da giornalisti e freelance presenti sul convoglio umanitario. L’obiettivo sotteso alla riunione è quello di sventare ulteriori ricostruzioni fittizie, smascherare ove possibile narrazioni tendenziose, lottare assieme per ottenere la restituzione delle attrezzature e dei materiali video sequestrati dall’esercito israeliano, in spregio alla libertà di stampa. Non da ultimo mantenere viva la memoria di quanto accaduto. In realtà viaggiamo anche per completare il lavoro iniziato ad Atene, prima della partenza della flottiglia, che avrebbe dovuto concludersi a Gaza filmando i vari momenti e personaggi della missione umanitaria. Manolo ha con sé una lunga lista di persone che intende intervistare: passeggeri della Marmara, membri dell’equipaggio, organizzatori della spedizione.

La traversata in direzione di Gaza l’avevamo trascorsa a bordo della Sfendoni, conosciuta anche con il nome di “8000”, incrociando la Marmara soltanto il 29 maggio al punto prestabilito per l’incontro di tutte le imbarcazioni, che arrivavano scaglionate procedendo a velocità molto diverse l’una dall’altra. Prima di allora non l’avevamo mai vista. La Sfendoni e la Eleftheri Mesogious erano salpate dal porto di Atene, la flotta turca proveniva da Istanbul e Antalya.

La mattina del 31, dopo le prime fasi dell’attacco, quando i gommoni ci sfrecciavano accanto pieni di soldati urlanti e si avvicinavano progressivamente alle fiancate delle navi, non era stato possibile osservare a lungo quanto avveniva a bordo delle altre imbarcazioni. Oltre ad essere repentinamente impegnati nella difesa passiva della Sfendoni, gli attivisti, e a documentare l’aggressione, gli operatori, le varie navi s’erano distanziate progressivamente l’una dall’altra, giungendo in fine a perdere il contatto visivo. L’opportunità di ricostruire parzialmente la vicenda s’è presentata solo in seguito, in carcere, la giornata del primo giugno, dopo che nella notte le guardie avevano condotto nel nostro braccio una cinquantina di passeggeri turchi. Tra loro solo un paio parlavano inglese e s’adoperavano come traduttori per i compagni. Le notizie, ancora confuse e un po’ emotive, delineavano già un quadro abbastanza chiaro, confermato in larga parte da tutte le testimonianze rilasciate alla stampa dai passeggeri nelle settimane successive. Ad Istanbul, durante la nostra permanenza tra l’11 e il 18 luglio, sono emerse ulteriori conferme e informazioni.

L’IHH

Uno dei passeggeri che ci preme maggiormente incontrare è Huseyin Oruc, membro del consiglio di amministrazione dell’ IHH, ONG turca che ha curato l’allestimento della Mavi Marmara. Lo raggiungiamo in ufficio, nel quartiere Fathi, a ridosso dell’omonima moschea. Andiamo rapidamente al sodo toccando quello che a prima vista sembra un tasto dolente.

Nei giorni successivi all’aggressione, l’IHH è comparso frequentemente sui giornali internazionali accostato ad Hamas, accusato di intrattenere legami con il partito islamico e essere un’organizzazione fiancheggiatrice di gruppi terroristici, riconosciuta come tale in Europa e negli Stati Uniti. Addirittura una recente disposizione del governo Merkel ha messo al bando l’IHH sul suolo tedesco, chiudendo la sede a Francoforte, confiscandone beni e sito internet.

Huseyin storce il naso e abbozza un mezzo sorriso tra l’amaro e il compassionevole. C’è un grosso errore, ci dice, che si nutre di falsità e malafede, e mette in luce un aspetto fondamentale dei conflitti moderni: la guerra dell’informazione. Nel caso specifico delle accuse verso l’IHH tutto si gioca sul fraintendimento, più o meno consapevole. Il pretesto lo offre l’omonimia con un’organizzazione tedesca, nata nel 1992 come costola europea dell’IHH turco. All’epoca l’ex Jugoslavia era travagliata dal conflitto etnico e versava in uno stato di guerra “tutti contro tutti”. L’ONG avrebbe voluto portare aiuti alla popolazione ma si scontrava con una legge che gli impediva di operare oltre i confini nazionali, rendendo necessario questo escamotage per condurre missioni all’estero. In seguito, terminato il conflitto nei Balcani, le due organizzazioni si allontanarono progressivamente, per diversità di obiettivi, finendo col separarsi nel 1997 quando l’IHH tedesco iniziò a radicalizzarsi. Da un pezzo ormai, puntualizza Huseyin, le due organizzazioni non hanno in comune che il nome.

E’ improbabile che l’intelligence israeliana non lo sappia e che di rimando non lo sappiano i media israeliani e quella parte di stampa partigiana per lo stato di Israele che con esso mantiene buoni canali informativi. Eppure la notizia che numerosi giornalisti rilanciano è proprio quella di un IHH genericamente amico dei “terroristi” e la prova addotta è il provvedimento tedesco contro di esso [ulteriori: 12]. Addirittura Fiamma Nirenstein (Pdl), vicepresidente della Commissione Esteri della Camera, intraprende un’iniziativa per spingere verso l’inserimento della ONG turca nella lista nera dell’Unione Europea.

La storia di Huseyin mi convince, però decido di scavare più a fondo per trovar conferme. Inizio una piccola ricerca in rete e nel giro di pochi minuti salta fuori qualcosa di interessante. Sono un pugno di agenzie e un paio di articoli più approfonditi che confermano la sua versione: l’IHH bandito dalla Germania è l’omonima organizzazione di Francoforte. Di più, trovo un’intervista al ministro degli interni tedesco in cui chiarisce la distanza tra le due ONG e la loro totale mancanza di rapporti.

Mi sorprendo a riflettere su Fiamma Nirenstein, sui giornalisti che hanno rilanciato la notizia glissando su questo dettaglio [1]. Per lo meno, penso, danno prova di essere malamente informati.

Tornando all’ intervista, l’IHH turco, ci spiega, è un’associazione che lavora da lungo tempo sulle emergenze e nelle zone di guerra, con presenze in Africa, nei Balcani, ad Haiti dopo il terremoto, a L’Aquila nei giorni seguenti il 6 aprile 2009, a New Orleans dopo il passaggio dell’uragano Katrina, e in Palestina.

Ovviamente, aggiunge Huseyin, l’IHH ha rapporti con Hamas. Operando a Gaza, dove l’amministrazione è gestita dal partito islamico, come potrebbe non relazionarsi? Organizzare una distribuzione di aiuti, installare un progetto umanitario, domandare una qualsiasi autorizzazione per esso o espletare una pratica burocratica comporta automaticamente un’interazione con i funzionari del governo. In questo non si rileva alcuna differenza con il modo di agire delle Nazioni Unite e di ogni altra entità umanitaria presente nella Striscia. Non si tratta di una scelta, ma d’una contingenza.

L’attacco alla mavi Marmara

Finiamo l’intervista, usciamo dall’ufficio e incontriamo Iara Lee, la regista Brasiliana di origini coreane che era imbarcata sulla nave turca. Anche lei è a Istanbul per la conferenza stampa. Ci eravamo gia visti in un paio di occasioni, tra cui il giorno prima nei magazzini dell’IHH dove sono stati raccolti quei bagagli che Israele aveva infilato alla rinfusa nelle stive degli aerei che ci rimpatriavano, rimasti in gran parte senza proprietario. Nessuno di noi aveva rinvenuto nulla, rovistando tra quei mucchi di borse, panni ed effetti personali miscelati apposta dai militari.

Siamo nella hall del palazzo occupato dall’IHH. Iara è lì perché deve recarsi all’ufficio “media” dell’ONG per copiare materiale d’archivio relativo alle loro missioni. Si ferma 10 minuti con noi, che dimentichiamo il pranzo e intavoliamo una conversazione sul possibile destino del nostro girato. Che fine avrà fatto dopo il sequestro? Iara ci rivela come pezzi di quei video siano stati utilizzati dall’esercito israeliano e riconosciuti qualche settimana più tardi su youtube da chi li aveva filmati, scioccato di vederli on line estrapolati dal proprio contesto. Rimaniamo colpiti, ma nemmeno troppo. Salutata Iara ci incamminiamo, continuando a discutere tra noi della questione, cercando di mettere insieme quanto appreso da altre conversazioni con operatori e attivisti presenti sul ponte della Marmara.

Immediatamente dopo l’attacco, l’esercito israeliano rilascia le prime dichiarazioni sulla sanguinosa operazione, affermando d’esser stati costretti ad aprire il fuoco per difendere i propri militari attaccati. Gli attivisti vengono accusati di violenze intenzionali e d’aver sparato per primi contro i soldati. A riprova, l’esercito pubblica su youtube filmati che ritraggono i passeggeri intenti a fabbricarsi bastoni tagliando le ringhiere della nave, mostrano una cesta di fionde, includono una carrellata su un tavolo su cui giacciono coltelli da cucina, asce di bordo, temperini svizzeri multiuso e scene accuratamente selezionate dalle fasi cruente dell’attacco [2]. Quelle immagini provengono dai materiali rubati ai giornalisti presenti a bordo, dal sistema a circuito chiuso della nave, e in parte dai filmati realizzati dall’esercito stesso con visori notturni a infrarossi. Un controllo sul montaggio dei materiali operato dall’esercito non è stato ovviamente possibile.

Ormai camminiamo da un po’. Ci sediamo al tavolo di una bettola dove cucinano bene. Con il proprietario, kurdo, siamo diventati amici e spesso discutiamo a lungo. Non conosce molto l’inglese e la conversazione si nutre di una vivace gestualità.

Mentre aspettiamo che si cuocia il pranzo, proseguiamo nell’analisi del blitz e della presunta sparatoria contro gli elicotteri. Dei bastoni [3] e delle fionde, contro uno dei più potenti eserciti al mondo, è quasi ridicolo parlarne. A parti invertite lo sintetizziamo così: David contro Golia.

A bordo della mavi Marmara non risulta che i soldati abbiano trovato altro se non quanto sopra descritto. Da parte loro le autorità turche attestano l’assenza di qualsivoglia arma da fuoco sulla nave, sottoposta a serrato controllo prima della partenza. L’attacco, ricostruito con numerose testimonianze, ha un andamento diverso rispetto alla versione dei militari. Huseyin e gli altri interpellati confermano come da subito gli elicotteri abbiano mitragliato il ponte, causando i primi morti e feriti. In un secondo momento da un solo elicottero si calano i tre famosi militari, che nelle immagini circolate vengono catturati dai passeggeri, malmenati e disarmati. Il dubbio che aleggia nei racconti è sempre lo stesso. L’azione è stata condotta con forze imponenti e un congruo numero di uomini: come mai allora vengono calati contemporaneamente solo 3 militari, su un ponte brulicante di nemici di cui non si sa se siano armati e come reagiranno? E’ difficile credere che si tratti di un errore da parte di chi ha diretto le operazioni, e tutti sono concordi nel sospettare che siano stati mandati coscientemente allo sbaraglio, come pretesto, sperando che esplodessero violenze onde giustificare in seguito le uccisioni.

Prendere il controllo dell’imbarcazione o fermarla, d’altro canto, era relativamente semplice. Le fotografie della Marmara mostrano una struttura rialzata sopra al ponte della nave. Si tratta della zona in cui è ubicata la cabina del capitano con i comandi. E’ rialzata rispetto al ponte, e dotata di uno spazio antistante. Sarebbe stato sufficiente calarvi un piccolo gruppo di soldati, raggiungendo il medesimo risultato senza spargimento di sangue.

L’ultimo pensiero, prima di distrarsi con il pranzo, torna ai tre malcapitati penzolanti dagli elicotteri e agli attivisti che li immobilizzano. Una volta disarmati i tre sono condotti nell’infermeria della nave e medicati [4] , prima di essere rispediti tra le fila dei propri commilitoni, che in quei pochi minuti avevano gia preso stabilmente posizione sul ponte. Cosa impediva agli attivisti di utilizzare contro di essi le loro stesse armi, o di adoperarle per sparare agli elicotteri? Cosa gli impediva di usare una delle granate dei soldati, togliere la spoletta e gettarla di sotto sui gommoni carichi di militari? Perché hanno invece hanno gettato in mare quelle armi?

Feriti, autopsie e proiettili

Con il passare dei giorni sono davvero tante le nuove conoscenze e scopriamo che l’aver vissuto un simile evento, sebbene su navi diverse, ha sviluppato un deciso senso di gruppo. Tutti si dimostrano estremamente disponibili e condividono senza riserve i ricordi dell’evento. Non sempre è facile. Per qualcuno si tratta quasi di una terapia: raccontare per dar luogo alla catarsi e liberarsi del peso opprimente di aver visto morire gli amici al proprio fianco. Per altri è più difficile. C’è chi, pur acconsentendo a parlare, si sente esulcerato rivivendo le scene di quella notte. Ognuno collabora come può e si fa in 4 per agevolare il nostro lavoro di raccolta d’informazioni.

Siamo ormai agli sgoccioli della nostra permanenza. Andrea ed io siamo impegnati nel back up di quanto registrato, mentre Manolo continua a telefonare a destra e manca per un contatto con il medico che ha condotto le autopsie sui cadaveri. E’ una settimana che siamo lì lì per ottenere l’appuntamento ma per qualche motivo, alla fine, salta sempre. Serve un permesso speciale del governo che tarda ad arrivare. Il medico ha ricevuto l’incarico direttamente dal governo turco e per concederci l’intervista aspetta un nulla osta che non arriva. Siamo scoraggiati. Per il nostro reportage video è molto importante avere una testimonianza tecnica sulle autopsie. Conoscere le traiettorie dei proiettili, la tipologia delle ferite, il loro numero, può chiarire aspetti rilevanti di quei tragici minuti sul ponte della Marmara.

Siamo un po’ abbattuti quando Humid, dell’ufficio produzioni televisive dell’IHH, ci comunica che ha un contatto con un altro medico, che ha letto le autopsie e che era imbarcato sulla nave. E’ un’ottima notizia. Accettiamo subito di raccogliere la testimonianza e fissiamo l’appuntamento un paio d’ore più tardi.

Incontriamo il dr. Mevlit Yurtseven, primario del reparto di Anestesia e Rianimazione dell’ospedale Avicenna, alla prima periferia di Istanbul, nel proprio ufficio all’interno della struttura ospedaliera. Il suo lavoro sull’imbarcazione, inizia a raccontare, consisteva nel dirigere la vita medica, coordinando i professionisti dell’infermeria. Il kit tecnico e i medicinali caricati erano quelli abituali, necessari per far fronte ai semplici malanni che un viaggio solitamente comporta. Il bisogno di farmaci specifici o di unità da campo attrezzate per interventi chirurgici non era stato preso in considerazione, poiché non ci si aspettava questo genere di attacco. L’organizzazione aveva esaminato ogni possibile scenario, dal muro di navi militari per stoppare l’avanzata della flottiglia, all’abbordaggio in alto mare. Ma confidava in un uso moderato della violenza, quel tanto sufficiente a raggiungere lo scopo. La carenza di attrezzature mediche con cui prestare soccorso ai feriti colpiti dalle pallottole è evidente nel filmato inedito che abbiamo fortunosamente recuperato. Nelle immagini i corpi di alcuni passeggeri semi-incoscienti giacciono a terra su cartoni insanguinati. Le bottiglie di flebo sono rette in mano dai compagni di viaggio, in piedi accanto a loro.

Mevlit nota come l’età media dei soldati fosse bassissima, ipotizzando si trattasse di reclute e non di militari con una più lunga esperienza. Il loro comportamento conferma indirettamente l’inadeguata preparazione ad un’azione del genere. Sulla barca tutti, eccetto i soldati, hanno i nervi più che saldi. Ce li hanno gli attivisti sul ponte, lucidi al punto da non cadere nella trappola di usare le armi sottratte ai tre prigionieri, e dimostrano di averli il resto dei passeggeri, che attendono seduti a gruppi sotto coperta l’arrivo degli israeliani, come attestano i filmati della regista Iara Lee.

Diversamente i soldati israeliani sono molto agitati, quasi terrorizzati, con un estremo bisogno di tenere tutto sotto assoluto controllo. Il medico ricorda come ad ogni porta si piazzassero almeno in 2 o 3 [5], tenendo sotto tiro gli attivisti bloccati a terra, e urlando ad ogni minimo movimento. Sul ponte, intanto, i feriti giacciono a terra ignorati dai soldati. Dalla sua posizione Mevlit può vederli e li sente gemere. Vorrebbe prestar soccorso ma gli viene proibito. Tenta ugualmente di alzarsi, ignorando il divieto e confortato dal pensiero che gli israeliani lo sanno essere un medico. Il soldato che gli sta d’innanzi urla, aizzandogli contro il cane [6] che tiene al guinzaglio, costringendolo a sedersi. Lo minaccia, dicendo che al prossimo movimento lo farà azzannare dall’animale. Passa diverso tempo prima che Mevlit veda i medici israeliani iniziare l’opera di soccorso. Il ricordo è scioccante, tanto che deve alzarsi in piedi, gesticolando energicamente con le mani durante la narrazione. I medici militari sono brutali, aggiunge, agiscono senza troppi riguardi per la condizione dei feriti che vengono in fine caricati sulle barelle, semi-incoscienti, con le mani legate strette dalle fascette di plastica.

Lo lasciamo prendere fiato, stemperando la tensione nel bicchiere di tè appena giunto dalla cucina dell’ospedale. Quando mostra di aver placato l’emozione proseguiamo nell’intervista e Manolo pone una domanda sulle autopsie, se le ha lette e cosa ne deduce.

Risponde di averle visionate e ci illustra brevemente come i fori delle pallottole siano un po’ ovunque sui corpi, sparate da angolazioni diverse: dall’alto, da altezza d’uomo, e a distanze differenti. Alcuni feriti presentano fori che provengono dalle prime raffiche, sparate dall’elicottero, e in aggiunta altri di pallottole sparate da distanze ravvicinate, che dimostrano come siano poi stati ulteriormente presi di mira dai soldati sul ponte. Furkan, il più giovane dei morti, appena 19 anni, è uno di questi. La sua autopsia e l’analisi delle ferite urlano che chi gli ha sparato aveva la chiara intenzione di uccidere.

Un altro dato interessante, appreso in precedenza e di cui chiediamo conferma, è l’uso di pallottole speciali, esplosive. Mevlit non può confermare nello specifico che genere di pallottole fossero, ma ammette che dalle autopsie traspare la presenza di lesioni particolari sui corpi, non riconducibili a proiettili ordinari. Alcuni feriti presentano fori che indicano come, colpiti dalle prime raffiche, siano poi stati ulteriormente presi di mira dai soldati e bersagliati da distanza ravvicinata. Furkan è uno di questi, sparato al viso da pochi metri. Da poco è stato rilasciato un resoconto di tutte le autopsie, in Inglese. In esso è riportato anche come l’esercito israeliano abbia operato per cancellare tracce dai cadaveri rendendo difficoltoso e vanificando alcune possibilità dell’esame autoptico.

Salutiamo il medico e torniamo in albergo perché si avvicina l’ora della partenza e dobbiamo ultimare i preparativi. Separare i materiali, creare una copia delle ultime registrazioni, chiudere le valige. In taxi ripensiamo alle persone colpite, e al fatto che tra di loro potevamo esserci anche noi. Avevamo cercato più volte, inutilmente, di salire a bordo della Marmara e dividerci: uno lì e uno sulla Sfendoni.

Se c’è un aspetto di questo conflitto che mi colpisce particolarmente, ma che probabilmente è ormai comune a tutte le guerre ad alta o bassa intensità, è l’uso massiccio dei media come arma. La lotta per il controllo delle informazioni è decisiva, perché determina l’idea che il mondo si farà dell’evento. Se non avessimo avuto una connessione satellitare sulla Marmara, se alcuni di noi non fossero riusciti per vie traverse a salvare del materiale, avremmo visto solo ciò che l’aggressore avrebbe mostrato. E’ una guerra dell’informazione in cui oltre alla verità, pagano un prezzo altissimo anche quei giornalisti che prendono sul serio il loro ruolo di narratori e testimoni. Concludendo questo scritto voglio ricordare due figure, una delle quali purtroppo per me senza nome perché ho stupidamente dimenticato di segnarmelo.

La prima è Cevdet Kiliclar, giornalista turco. Stava riprendendo il blitz con in mano la sua telecamera quando un soldato israeliano gli ha piantato un proiettile in fronte, tra gli occhi, spappolandogli il cervello e uccidendolo quasi sul colpo. La seconda persona è un cameraman incontrato a Istanbul. Oggi indossa un tutore ortopedico che gli avvolge l’avambraccio destro e termina con 5 fili metallici, leggermente elastici, a cui sono attaccati altrettanti anelli di pelle. Servono a tenere in sospensione le dita della mano. L’arto ha perso quasi del tutto la sensibilità dopo che un proiettile gli ha trapassato il braccio per il lungo mentre anch’esso filmava l’assalto. Dedico a loro il presente lavoro e quanto stiamo producendo inerente al viaggio della flottiglia.

01-03 agosto 2010

Manuel Zani

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