Culture

La Violenza Illustrata

La Rassegna Cinematografica svoltasi al cinema Lumière il 19, 20 e 21 novembre 2009. La nostra recensione.

24 Novembre 2009 - 15:33

In occasione di La Violenza Illustrata, festival organizzato dalla Casa per le
Donne per non subire violenza di Bologna (16-29 novembre 2009) a cura di Chiara
Cretella e di Anna Pramstrahler, giunto quest’anno alla sua quarta edizione,
la Cineteca di Bologna ha ospitato, in una breve rassegna cinematografica,  la
proiezione di tre documentari che ci parlano di vite diverse di donne, di
scelte come di accettazione passiva dello status quo; del valore della
maturità femminile intesa pienamente anche nel senso di vecchiaia anagrafica,
come della sparizione dei desideri, dei pensieri e dei corpi femminili reali
dallo spazio dell’etere televisivo. Il corpo espiatorio è titolo scelto per
questa edizione del festival. Il corpo delle donne, oggetto non solo di
violenza fisica, ma anche di negazione, rimozione, falsificazione.
Violenza infatti è anche e soprattutto cancellare e occultare le identità
difformi dal pensiero unico dominante, quello della reificazione umana.
La vita di Anna Politkovskaya e le parole nette e lucide di Joyce Lussu, come
le poesie amare di Amelia, anziana donna di Sannicola, in provincia di Lecce,
ripresa con affetto dalla nipote, si contrappongono alle immagini del corpo
femminile nella televisione di questi anni, la vera “Mostra delle
atrocità” di un’Italia bigotta e clericale.

211: Anna di Paolo Serbandini e Giovanna Massimetti, Italia, 2008

Anna Politkovskaya  muore il 7 ottobre 2006, assassinata nell’androne del
palazzo dove abitava, colpita dai proiettili di alcuni sicari. Ad oggi, i
mandanti del suo omicidio restano sconosciuti, ma sono chiaramente indicati nei
suoi libri e nei suoi articoli.
La Politkovskaya, inviata del giornale moscovita Novaja Gazeta, segue negli
anni le vicende relative alla guerra in Cecenia, la sua occupazione da parte
delle truppe russe. Nel silenzio generale, nella tacita complicità
internazionale agli abusi e ai massacri compiuti dai militari russi sui ceceni,
la voce di Anna si leva, praticamente sola, a dispetto di intimidazioni
ripetute, che culminano con un tentativo di avvelenamento, nel 2004, mentre sta
cercando di raggiungere Beslan, dove un asilo è stato occupato da guerriglieri
ceceni che reclamano la fine della guerra da parte della Russia.
Anna, che aveva già preso parte in veste di negoziatore alle trattative per il
rilascio degli ostaggi nel caso del teatro Dubrovka di Mosca, lo stesso anno,
scampa alla morte, ma ha coscienza di essere una donna morta che cammina,
sempre più isolata e vulnerabile, di fronte ad un potere politico assoluto e
disumano, quello di Putin.
Il film di Paolo Serbandini e Giovanna Massimetti comincia con dei filmati
della crisi russa dei primi anni ’90, all’epoca del colpo di stato che
destituì il presidente dell’URSS Gorbaciov. Durante la Perestrojka voluta da
Gorbaciov nella seconda metà degli anni ’80, Anna e suo marito Sasha
Politkovsky, conduttore televisivo di un noto programma di informazione, vivono
una stagione di grandi mutamenti.
Il programma di Sasha si propone di effettuare inchieste sulla realtà russa
libere da censure. Dopo il disastro di Cernobyl il giornalista si reca negli
ospedali, tra i bambini contaminati, mettendo di fronte alla portata tragica
dell’evento quanti in Russia non fossero a conoscenza della gravità
dell’accaduto. Dopo il colpo di stato la situazione precipita. Sasha, che era
anche stato eletto in parlamento, viene estromesso dalla televisione, e il suo
programma viene chiuso.
Alla fine degli anni ’90, Anna, dopo aver dedicato gli anni in cui i suoi
figli erano piccoli prevalentemente alla loro educazione, torna attivamente al
giornalismo. Diventa inviata della Novaja Gazeta, giornale indipendente.
Quei pochi anni, tra il suo ritorno nel mondo giornalistico e la sua morte,
sono segnati dalla sua volontà implacabile di sapere, di portare a conoscenza
di quanti non potevano o non volevano sapere i reali accadimenti della guerra
in Cecenia, le torture sui civili da parte dell’esercito russo, la
sistematica oppressione sulla popolazione civile. Per la Novaja Gazeta Anna
scriverà, da allora fino alla sua morte, 500 articoli sulla guerra in Cecenia,
portando a conoscenza del mondo quale fosse la vera politica di Putin. La
Politkovskaya non mancherà di sottolineare il colpevole e reiterato appoggio
del presidente del Consiglio italiano Berlusconi alla politica putiniana.
E Berlusconi, dopo la morte della giornalista, minaccerà “scherzosamente”,
di fronte a Putin, una giornalista russa rea di aver posto delle domande al
presidente russo, mimando con la mano il gesto di una pistola che spara.
Anna Politkovskaya entra in conflitto con la stessa redazione del suo giornale,
attaccata per ritorsione contro il suo lavoro, criticato persino da un buon
numero di lettori, che scrivono affinché si cessi di parlare di Cecenia. Molti
abbonamenti vengono ritirati. Nonostante il crollo delle vendite, il direttore
della Novaja Gazeta continua a sostenerla.
Il film è in parte anche la storia privata di Anna. Figlia di diplomatici,
nasce a New York. Frequenta la facoltà di giornalismo dell’Università di
Mosca. Si sposa giovanissima nel 1980.
Anna vive negli anni un forte conflitto, dovuto al fatto che l’educazione dei
figli, a causa del lavoro di giornalista e conduttore televisivo del marito,
ricade totalmente sulle sue spalle. Soffre per l’incomprensione da parte del
consorte di quanto quella vita non sia adatta ad una persona come lei. Quando i
figli sono cresciuti, Anna torna al suo lavoro, destando l’incomprensione e
la gelosia del marito, che invece ha perso il suo programma in televisione. Si
separeranno poco tempo dopo.
La solitudine pubblica, di una giornalista che intendeva il suo mestiere nel
senso più pieno del termine, si unisce a quella privata, quella di una donna
alla quale viene chiesta la rinuncia alla sua voce e la totale abnegazione
verso la sua famiglia, in una vita di riflesso.
Nelle immagini più recenti girate a Mosca da Serbandini e Massimetti dopo le
ultime elezioni, all’uscita dei seggi, per la strada, le persone che non si
schermiscono totalmente e accettano di rispondere a qualche domanda, su Anna
glissano: “Era una brava giornalista” “Non so perché è stata uccisa, è
morta e basta”.
Mentre gli autori intervistano un musicista sopravvissuto alla strage del
teatro Dubrovka, dove l’intervento militare dell’esercito russo portò alla
morte anche molti civili, intossicati con i gas dispersi nell’edificio, una
donna che passa inveisce contro di loro. “Dite solo menzogne. Di queste cose
dovete lasciare che se ne occupi il governo. Loro sanno quello che è giusto
fare”. Altri rispondono con indifferenza alle domande su Anna. “è stata
uccisa. E allora?” Quando l’intervistatore gli dice che Anna è stata il
211 giornalista ucciso in Russia dal ’91, l’uomo replica “E allora? Dopo
ci sarà anche il 212 e il 213.”
Dostoevskij, ne “I fratelli Karamazov”, faceva dire ad uno dei personaggi
principali del romanzo, il giovane Aliosha, che “Ognuno è responsabile di
ogni cosa verso tutti”.
Un pensiero che la giornalista russa, che ha scelto la lotta a dispetto di una
vita comoda, che è morta perché la voce della Cecenia fosse ascoltata, ha
seguito nel senso più pieno.

Il corpo delle donne di Lorella Zanardo, Italia 2009 e Amelia di Chiara Idrusa
Scrimieri, Italia, 2007

Il documentario di Lorella Zanardo è un percorso attraverso un montaggio di
immagini provenienti da un buon numero di programmi televisivi italiani,
trasmessi sia da Mediaset che dalla RAI. Programmi contenitore, indistinguibili
l’uno dall’altro, che replicano all’infinito una costante esibizione del
corpo femminile. Corpo associato a qualsiasi prodotto, esposto gratuitamente,
parcellizzato. Riprese televisive realizzate con telecamere posizionate spesso
in basso, come nota la regista, a inquadrare glutei, cosce, vagine come in un
film porno.
Ma che corpi sono questi? Sono donne giovani, dalle misure canoniche adottate
dai manichini nei negozi. Sono corpi senza volto, in quanto il volto ne è
occultato, uniformato, mascherato.
Il volto che è l’età e l’espressività di una persona, costantemente
corretto, uniformato dal lifting.
Il volto delle donne, nella televisione italiana è sparito, come la
possibilità di manifestare una soggettività, una possibilità ulteriore
all’immagine più venduta, un insieme di dettagli anatomici, labbra siliconate,
glutei ben modellati, lucidi d’olio; pezzi di cadavere, privi di afflato
vitale.
Come osservò Pasolini, su chi imponeva la censura dei suoi film con il
pretesto delle nudità del corpo, del sesso, ai censori non stava a cuore
l’evocata, pretesa dignità o integrità della persona umana. Pasolini
profetizzò ciò che è oggi sotto i nostri occhi, lo sdoganamento da parte dei
media della nudità corporea, ma nella sua forma più triviale, più retriva;
qualcosa di inoffensivo per il potere e anzi mezzo di mantenimento e
consolidamento del patriarcato nell’immaginario di milioni di utenti
televisivi.
La deriva (auspicata e ottenuta da quanti hanno avuto il controllo dei media
negli ultimi 30 anni) di una liberazione sessuale mai raggiunta, che in un
paese patriarcale e cattolico come l’Italia si è tradotta nella mera
esposizione del corpo della donna. Quanti ricordano le copertine dei maggiori
rotocalchi di politica e attualità degli anni ‘ 80, come Epoca, L’Espresso,
Panorama, con giovani modelle nude e vecchi uomini di potere in copertina,
sanno che questo processo è in atto da lungo tempo, ed è solo il rovescio di
una mentalità bigotta e ipocrita.
Come sottolineato nel recente Videocracy di Erik Gandini, dietro queste scelte
estetiche c’è la volontà di manipolare e controllare l’immaginario di chi
guarda la televisione, proponendo ossessivamente la macchietta di un femminile
stereotipato, ossessionato dal proprio corpo, deodorato, depilato, lubrificato,
truccato, sorridente. Quando interpellate, le immagini femminili televisive
replicano i più vieti e rassicuranti luoghi comuni maschilisti: in fondo le
donne vogliono solo procreare, e magari un po’ di lusso, per essere
invidiate, come cantava ironicamente Tenco tanti anni fa, in una canzone sui
“giornali femminili”.
L’esposizione fine a sé stessa di queste nudità plastificate è poi
costantemente accompagnata, soprattutto nei programmi che vanno in onda nella
fascia pomeridiana, da richiami e proclami su quella che viene definita “la
vera femminilità”. Il titolo di uno di questi format parla da solo: “La
sposa perfetta”.
Questo modo di rappresentare la donne in televisione, al quale molti non fanno
caso, è percepito come una grottesca stranezza all’estero, come l’ennesimo
connotato circense dell’Italietta, ma in termini molto concreti mantiene lo
status quo.
L’Italia che si nutre di queste immagini televisive è la stessa che non batte
ciglio di fronte al proprio presidente del Consiglio che, all’intervento di una
giovane precaria che lamenta la sua assenza di prospettive lavorative, replica
lodando la sua avvenenza e dicendo che le augura di sposare un uomo ricco,
magari come suo figlio.

La scelta di accompagnare questa proiezione al piccolo, delicato corto della
Scrimieri, Amelia, è stata particolarmente felice. Ecco un corpo reale, quello
di una donna molto anziana, con tutto il suo peso doloroso, la fisicità
concreta dei suoi 94 anni. Un viso mobilissimo, quello di Amelia, una mente
ancora lucida. Una donna come tante, speciale, come tante di cui l’etere non
si occupa, che giorno per giorno combatte la sua battaglia solitaria contro la
vecchiaia armata solo della sua ironia, e della curiosità che la spinge a
leggere e ad informarsi, invece di guardare la televisione.

Portrait di Joyce Lussu di Marco Bellocchio, Daniela Ceselli, montaggio di
Federica Ravera. Italia, 2009

Di Joyce Lussu, partigiana, poetessa, traduttrice e grande divulgatrice, non si
sente parlare molto spesso. Eppure è stata una donna di primo piano nella
Resistenza italiana e nella politica del dopoguerra, oltre che poetessa,
scrittrice, fautrice di quell’internazionalismo poetico che la portò a
tradurre e a diffondere poeti poco noti di ogni parte del mondo, fuori da
logiche accademiche. Per Joyce era importante ascoltare “le donne analfabete,
gli uomini che si esprimono in dialetto, gli infanti…”, coloro che non
fanno la storia ufficiale.
Portrait de Joyce Lussu, di Marco Bellocchio e Daniela Ceselli, documentario
ancora incompleto, è stato presentato in anteprima sabato 21 novembre in
Cineteca. Si tratta di alcuni estratti di due lunghe interviste con
l’autrice, realizzate nel 1994, quattro anni prima della sua morte.
Joyce parla della sua vita, della sua militanza partigiana, con tono sferzante.
Racconta che negli anni molti le hanno chiesto di questo impegno, del
sacrificio che ha comportato per lei: Joyce invece non ha mai considerato la
sua lotta nella Resistenza in questi termini. Ha sempre detto di aver fatto
quello che sentiva di fare. Non si trattava di sacrificio, ma di vivere
pienamente la sua vita in quel momento, di fare ciò che andava fatto secondo
le sue convinzioni. Nel dopoguerra, sarà tra le promotrici dell’UDI (Unione
Donne Italiane), e nel corso della sua vita cercherà costantemente di
promuovere la cooperazione e l’aggregazione tra le donne (come nel caso
dell’esperienza, purtroppo di breve durata, con le donne sarde nel
dopoguerra).
Importante poi il suo impegno pionieristico nei confronti dei temi ambientali;
L’acqua del 2000, edito da Mazzotta nel 1997, ne è un chiaro esempio, oggi
che ci troviamo di fronte alla conclamata oscenità della privatizzazione delle
risorse idriche.
In occasione dell’anteprima, l’editore Orlando Micucci della Gwynplaine ha
presentato la riedizione di un importante libro della Lussu, Padre, Padrone,
Padreterno, pubblicato da Mazzotta nel 1976, con l’obiettivo di ridare
circolazione ad un testo importantissimo, quanto mai attuale nella retriva
Italia odierna.

Paola Meloni