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La storia di Samir

Pubblichiamo i contributi del gruppo Salute dietro le sbarre, di Milena Magnani [video] e della redazione di Carmilla per la serata “No more Cie” che si è svolta nei giorni scorsi a Vag61.

25 Maggio 2014 - 14:11

“Salute dietro le sbarre” nasce come gruppo di auto-formazione, composto da studenti ed ex studenti di giurisprudenza e medicina. Da qualche anno ci riuniamo con l’obiettivo di comprendere le complesse dinamiche per cui certe istituzioni totali, come quella penitenziaria, siano luoghi di negazione e sospensione di diritti fondamentali, in primo luogo del diritto alla salute, intesa come uno «stato di completo benessere fisico, psichico e sociale e non semplice assenza di malattia», secondo la definizione dell’OMS. Fino ad oggi ci siamo occupati in via diretta solo di carcere, collaborando assieme all’associazione “L’AltroDiritto” ad uno sportello di assistenza medico-giuridica all’interno della Dozza. Da qualche tempo stiamo portando avanti anche un percorso di comprensione del “fenomeno CIE”, che per le sue origini e la sua struttura rientra perfettamente nella grande cornice delle istituzioni detentive.

Qui con voi, questa sera, vogliamo contribuire con una piccola analisi sul tema della salute nei CIE, e alla fine raccontarvi una storia che nasce in realtà dall’intreccio di molte storie.
I CIE – agli albori CPTA (centri di permanenza temporanea ed assistenza)- nascono ufficialmente come strutture finalizzate al trattenimento degli stranieri irregolari destinati all’espulsione.
Fin dalla culla mal celano una grave anomalia giuridica: per un semplice illecito amministrativo, quale il trovarsi irregolarmente sul suolo italiano, viene applicata una misura che è caratteristica della giustizia penale ed è estranea al diritto amministrativo. Il messaggio politico è ben chiaro. “Uomo o donna che parti, uomo o donna che già dimori nel nostro paese senza documenti, guardati le spalle! E tu, italiano timoroso dell’ “altro”, stai sereno. Nessun sans papiers sfuggirà al processo di identificazione ed espulsione”. Da un lato, dunque, si tratta di una strategia propagandistica volta a mostrare un finto interesse per la questione immigrazione. Dall’altro, è assolutamente evidente il ricatto strumentale: più si ostacolano i percorsi migratori, più si espropria la persona dei propri diritti civili, politici e sociali riducendo, citando Agamben, “l’esistenza a nuda vita”.

Maggiore sarà così il numero di persone disposte a tutto pur di non finire in un CIE, maggiore sarà quindi la forza lavoro ricattabile. Nella stessa strategia manipolatoria rientrano appieno le difficoltà incontrate dai migranti senza documenti per accedere a qualsiasi servizio. E l’ambito sanitario rientra assolutamente in questo quadro. In Italia gli stranieri privi di documenti hanno diritto all’assistenza sanitaria gratuita solo nell’ambito di cure urgenti, essenziali ancorché continuative. Ma che cosa significa essenziale? Chi, decide che una cura è o non è essenziale? E per ciò che non è essenziale? Per avere un medico di base, o una visita per un approfondimento specialistico? Lo Stato italiano da’, in questo, pieno potere alle ASL. E a Bologna le ASL demandano tutto ad associazioni di volontariato, quali Sokos. É dunque ovvio che i cittadini irregolari siano considerati come cittadini di serie B, che hanno diritto solo a prestazioni sanitarie a carattere volontario, con tutto quello che questo comporta in termini di qualità e di tempistica del servizio erogato.

Questo si riflette in un allontanamento dai servizi per la salute da parte dei migranti irregolari.
É un sistema che respinge e non accoglie, e inevitabilmente le persone smettono di curarsi.
Ciò comporta due gravissime conseguenze: da un lato, c’è un evidente problema di salute pubblica e collettiva, che porta ad accentuare la stigmatizzazione della persona immigrata, dall’altro, nasce una crisi d’identità e del corpo che si ripercuote sull’intero individuo. Il migrante deve avere, per lo Stato di accoglienza, un valore economico ed uno status giuridico ben definiti. Viene così ridotto, da un sistema governativo basato su una economia capitalistica incentrata sul massimo profitto e sul controllo dei corpi e della vita biologica, a “corpo che lavora”. Si assiste così a quella che De Martino definisce “crisi della presenza”: quando questo corpo si ammalerà, verrà scardinata la definizione identitaria e la collocazione sociale entro cui il migrante si era posto. Le reazioni saranno allora ambivalenti: qualcuno richiederà controlli frequenti per accertare il proprio stato di salute, qualcun altro avrà invece una tendenza a negare il dolore e la malattia, allontanandosi ancora di più da un’ipotesi di cura.
Paradossalmente, spesso accade che per molti migranti il primo contatto con il sistema sanitario nazionale avvenga in carcere, con tutte le criticità che caratterizzano il tema della salute all’interno del sistema carcerario.

Mancando poi completamente un percorso di sostegno e di orientamento nel “post-detenzione”, molto spesso i migranti fuoriusciti dal carcere non riescono comunque a regolarizzare la propria posizione e finiscono dentro un CIE, in attesa dell’espulsione.
In questa strada senza uscite il diritto alla salute non viene in alcun modo considerato anzi, tale sistema non fa che diventare esso stesso generatore di malattia, commettendo quella che viene definita una “violenza strutturale”, intesa ad incorporare e ghettizzare una condizione di marginalità, precarietà e irregolarità.

E nel CIE, che succede? In tutti i centri il personale sanitario è contrattato e gestito direttamente dagli enti gestori. Se in tal modo lo Stato pensa di risparmiare, sicuramente quello che ottiene è una totale deresponsabilizzazione. Accade dunque che i CIE si trovino in una condizione che MEDU, nel suo rapporto sui centri di identificazione ed espulsione, ha definito di extraterritorialità sanitaria, del tutto svincolata dalle ASL e quindi dal servizio pubblico, al cui personale è perfino interdetto l’accesso nei CIE. Ciò permette all’ente gestore di avere pieni poteri e il totale controllo dell’attività sanitaria che si svolge dentro al centro, e il personale sanitario sarà vincolato professionalmente al proprio datore di lavoro.

Difficoltà di accesso alle cure e alle prestazioni diagnostiche presso le strutture ospedaliere e i servizi sanitari presenti sul territorio, assenza di protocolli terapeutici standardizzati e ridotta qualità dei servizi erogati sono tra le principali criticità sul tema salute all’interno del CIE.
A ciò si aggiunge un’eccessiva discrezionalità nei criteri di idoneità sanitaria al trattamento e nelle cure fornite ai singoli. Paradigmatico è l’uso degli psicofarmaci all’interno delle strutture. Se da un lato c’è un abuso di domanda, dall’altro c’è un abuso di prescrizione dovute, entrambe, all’impostazione strutturale del CIE che crea esso stesso psicopatologie.

Esempio lampante sono le benzodiazepine (degli ansiolitici e ipnoinducenti) che non dovrebbero essere prescritte per tempi eccessivamente lunghi in quanto inducono tolleranza e dipendenza, ma che invece nei CIE vengono spesso prescritte ed utilizzate per tutta la durata della detenzione, finanche per 18 mesi.

Per quanto riguarda il CIE di Bologna, dal rapporto di Medici per i Diritti Umani del 2013, si legge che l’ ambulatorio del CIE non è strutturato per garantire un servizio di cure primarie, ma un servizio minimo di cure essenziali. Non vi è prevista la presenza di medici specialisti – neppure psichiatri né tossicologi. L’accesso all’ambulatorio non è diretto, ma è filtrato dagli operatori che trasmettono la richiesta del detenuto. Non esistono protocolli sistematici per la diagnosi e il trattamento delle principali malattie infettive, che vengono escluse in base ad un semplice esame clinico. I disturbi della sfera psichica sono molto frequenti, e si manifestano con atti di autolesionismo, tentativi di suicidio, insonnia e dipendenza da farmaci ansiolitici.
Agli inizi la gestione del CIE era affidata alla Misericordia, che spendeva 69 euro pro capite. Ad aprile 2012 il consorzio Oasi di Siracusa si è aggiudicato la nuova gara d’appalto con un’offerta di 28,5 euro al giorno per trattenuto, budget ridicolo che ovviamente ha peggiorato i servizi erogati per la salute e le condizioni igieniche e strutturali dei moduli abitativi della struttura.

La storia di Samir

salVi vogliamo ora raccontare una storia. Una storia che nasce dall’intreccio di più storie diverse, lette da report o sentite con le nostre orecchie da detenuti rinchiusi alla Dozza. Non vogliamo in alcun modo sostituirci alla bocca e agli occhi che hanno raccontato e vissuto veramente queste storie ma, umilmente, proviamo a condividerne dei frammenti.

Samir è un tunisino di 33 anni. Quando lo guardi risponde al tuo sguardo con occhi tristi e vacui, che rispecchiano il suo “stare”all’interno della Dozza. É pallido, emaciato ma ogni tanto si lascia sfuggire qualche timido sorriso. Ha chiesto di vederci, tramite quella che in carcere è definita la “domandina”, un pezzo di foglio di carta nel quale i detenuti devono mettere per iscritto le loro richieste, come poter fare un colloquio o una telefonata. Ci sediamo, ci stringe la mano e vuole essere lui a compilare la scheda anamnestica, perchè ha studiato per 4 anni matematica nel suo paese, sa scrivere bene e ce lo vuole dimostrare.

Ci racconta che a fine 2011 è sbarcato sulle coste di Lampedusa dopo un viaggio inenarrabile, come lo è per quasi tutti, a seguito degli sconvolgimenti politici della Primavera Araba. Per esito negativo della sua richiesta di asilo, dal dicembre 2011 è stato rinchiuso nel CIE di Gorizia (Gradisca d’Isonzo).

Ci racconta che in Tunisia è stato lui uno dei fomentatori dello scoppio della Primavera Araba. Faceva parte delle forze dell’ordine, ma un giorno si è ribellato e ha dato fuoco ad una caserma. Ora non vuole più tornare nel suo paese, anche se lì ha moglie e figli, perchè ha ricevuto diverse minacce di morte ha paura.

Ci mostra qualche foglio stropicciato. Sono referti medici, e nomi di psicofarmaci. Quando era rinchiuso nel CIE si è tagliato più volte. Una volta al gomito destro, una volta al collo, una volta alle gambe. A gennaio 2012 inizia a prendere degli psicofarmaci, per lo più ansiolitici, perchè è riuscito ad incontrare lo psichiatra del centro. Lo psichiatra fa diagnosi di reazione da stress ambientale e calo ponderale importante in sindrome depressiva reattiva. Nel prescrivergli una terapia farmacologica per l’insonnia e l’ansia, il medico ritiene assolutamente urgente velocizzare il più possibile l’uscita dal CIE, ritenendo che la situazione ambientale possa peggiorare ulteriormente il quadro di Samir. Nonostante questo, prosegue la sua detenzione. Alla fine del febbraio 2012, una nuova visita psichiatrica esterna riscontra un peggioramento del quadro (“grave sindrome depressiva con importante dimagrimento”), specificando che “la situazione psico-patologica è sicuramente reattiva al trattenimento nel CIE”. Samir ci racconta poi che a marzo dello stesso anno, lui e altri detenuti hanno iniziato un vero e proprio sciopero della fame, che non porta però a nessun cambiamento. A fine marzo, Samir prende un paio di forbici e tenta di tagliarsi la giugulare. Inizia a perdere sangue e sbianca in volto, cade a terra e le guardie chiamano il 118. In pronto soccorso il quadro di Samir migliora grazie a rapide medicazioni e a tre trasfusioni di sangue. I medici del pronto soccorso rilevano un’anemia da perdite ematiche ripetute, diversi tagli sul corpo di Samir e richiedono perciò una valutazione psichiatrica. Ristabilitosi, nonostante l’evidente incompatibilità con la detenzione, viene rispedito nel CIE. Dopo circa una settimana, i sanitari del centro annotano che “l’ospite ha ripreso ad alimentarsi e a reidratarsi per cui, tenendo presente la compatibilità dei parametri vitali e soprattutto la volontà di riprendere a mangiare e bere, si ritiene attualmente compatibile dal punto di vista organico il suo trattenimento presso il CIE di Gradisca, salvo ulteriori ripensamenti auto-lesionistici”. La terapia farmacologica viene integrata con altri farmaci per un totale di due anti-depressivi, un anti-psicotico e un ansiolitico. A luglio 2012, Samir fugge dal CIE. Prende un treno in direzione di Bologna, e arriva a Calderara di Reno, dove lo ospita un amico che vive in Italia da 3 anni. Inizia a lavorare come speedy pizza, saltuariamente come pizzaiolo, poi come muratore e lavavetri. Sempre in nero, sempre in silenzio, sempre afflitto da una pesantezza “come sulla nave, quando eravamo tutti stipati, tutti zitti, e guardavamo il mare di fronte a noi. Non tutti eravamo in grado di nuotare”.
Ci guarda con aria di sfida. “Ho cominciato a spacciare perchè non avevo più nessuna possibilità. Nessuno mi voleva regolarizzare, nessuno mi assumeva per più di un mese o due. Alla fine, mi sono arreso allo spaccio. Tanto se mi fermano e mi arrestano, almeno in mezzo ho fatto un po’ di soldi, no? E così è stato”.

Samir sorride, ci guarda e sorride. Ha scelto la via illegale perchè era secondo lui l’unica via d’uscita. Adesso però è qui con noi, a questo tavolo, dentro una stanza con una sola finestra, all’intero del carcere Dozza, e di vie d’uscite non ne vede più. Ci racconta che si sente solo, si sente in colpa, si sente responsabile per la sua famiglia. “La scorsa settimana hanno accoltellato mia madre, per colpa mia, sapete?”

Due settimane prima di incontrarci, ha litigato con un compagno di cella fino alle botte. I suoi compagni si lamentavano perchè a volte Samir si sveglia di notte e urla. Gli altri 3 suoi compagni non riescono a dormire, ma lui non riesce a fermarsi. Così una notte scoppia la rissa, Samir e un altro si azzuffano, e Samir finisce in isolamento. Il giorno dopo tenta il suicidio ingoiando un accendino. Viene ricoverato al Sant’Orsola, nell’apposito spazio riservato ai detenuti. Tornato alla Dozza, fortunatamente lo spostano di cella. E adesso è qui con noi, e ci chiede un incidente di esecuzione data la recente sentenza della Corte Costituzionale in merito allo spaccio, reato per il quale è stato condannato, e minaccia di togliersi la vita se non riuscirà ad ottenere il diritto d’asilo. Cerchiamo di rassicurarlo dicendogli che proveremo a fare una relazione di incompatibilità con il carcere e una richiesta d’asilo, e lo preghiamo di non farsi più del male.

Quando ci chiede perchè, perchè non dovrebbe farsi del male, per cosa non dovrebbe farsi del male, rimaniamo in silenzio, ammutolite.

Perchè?

Salute dietro le sbarre

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La città uguale

magnPenso che resterò con loro. Resterò come se sapessi restare.
Sul marciapiede davanti al grattacielo ad alveare. Loro mi verranno incontro snervati, mi aggireranno ai due lati e pace.

Avrò il tempo di cantare:

Guardando a orecchio si vede Shanghai
in fondo ai viali di Vienna
la sua sagoma si accenna
inconfondibile in mezzo al via vai

Resterò con loro. Non vi è dubbio. Con gli inquilini di questi condomini. Per l’espressione indurita con cui escono dal quartiere la mattina. Per i loro occhi che non vedono niente.
Con loro resterò. E anche con le panchine vuote nei cortili. E il vibrare dei vetri al passaggio dei tir sullo svincolo delle autostrade.

Ma l’ho detto tante volte a Joséphine, è il senso di una riconoscenza che mi costringe qui, qui dentro questa frontiera IACP. E’ la fedeltà a una condizione.

E Joséphine mi ha ascoltato senza capire, ridendo come fa solo lei quando, pur non afferrando il senso di un discorso, vi trova qualcosa di divertente.
Povera Joséphine. Lei non è mai stata davvero nelle periferie. Sulla linea di confine. Con queste mani fredde.
Tutte le volte che sono riuscito a trascinarla qua, lei si è girata indietro a guardare. Verso la città vecchia. Ogni tanto. Ha buttato l’occhio come se cercasse.

Guardando a orecchio si vede Shanghai
in fondo ai viali di Vienna
la sua sagoma si accenna
inconfondibile in mezzo al via vai

Tutto tempo sprecato prendere Joséphine sottobraccio, portarla a guardare da qua. La periferia che si impone nei bar, si impone a inerzia nelle fermate dei tram.
Lei crede di appartenere al salotto della città, dove le antiche famiglie locali lasciarono sui portoni i propri blasoni. E dove, ogni tanto, camminando tra gente appartiscente, riesce ancora ad illudersi di appartenere a qualcosa.
Per questo mi sento avvilito quando la vedo scendere dall’auto e procedere per il mio quartiere come se calcolasse i propri passi.
Di solito borbotta tra sé qualcosa che riguarda le strade poco illuminate e le piazze. E intorno ci sono altre strade poco illuminate e altre piazze. Ci sono le fabbriche dismesse. E bambini che corrono con mortaretti in mano.
E più si avvicina al mio palazzo, più si vede che comincia a sentirsi comune e anonima. Che ha nostalgia della sua città.
Cerca intorno a sè qualcosa che la rassicuri, un elemento che la colleghi all’atmosfera dei suoi vicoli caldi, ma non trova nulla, neanche me.
Io solitamente sto dietro la finestra, la guardo attraversare il piazzale coi piedi stretti e contratti.
Raramente le faccio cenni con la mano.
Più che altro sto fermo a guardare i gabbiani che hanno perduto il mare.
Ce ne sono sempre due o tre, oltre il campo nomadi. Volano verso la montagna dei rifiuti. Starnazzano privi di peso.

Guarda dov’è che si vede Shanghai
in fondo ai viali di Vienna
la sua sagoma si accenna
inconfondibile in mezzo al via vai

Quante intese mancate, quelle con Joséphine.
Lei non ha davvero capito cosa succede in periferia. Non ha capito che la vita in periferia non è ad una città che si rivolge, ma più semplicemente a tutte le città. A quello stemperarsi di tutte le città in un luogo aperto, dove le infinite direzioni si sono spalcate e l’anima della città chiusa è costretta a soccombere.

Basterebbe guardasse i ragazzini fuori dai bar. Nei parcheggi cementati di desertiche cattedrali. Stanno curvi sui motorini. Accendono sigarette. Giocherellano con gli accendini.
Con le parole cercano di inseguire un orizzonte che li sopravanza di mille prospettive. Parlano di un locale di Gabicce. Ma anche di uno di Tokio. Di Londra. Di Los Angeles.
E più parlano, più si capisce che non abitano in nessun luogo, se non al centro di una rosa dei venti. Nel barbaglio della luce.

Qualche volta vorrei costringere Joséphine ad avere idee più grandi ma lei di solito è già sulla porta che indossa la giacca nervosamente. Esce senza salutare.

E allora vai Joséphine.
Tanto io resto qua. Con gli inquilini di questi condomini. Resto come se sapessi restare. Nella litania dei treni che arriva come un barrito.
Con il mio vicino Pachistano, Kusum, che mastica sempre uno stecchino di legno. Con lui posso parlare di salse piccanti, oppure salire sul cavalcavia, guardare dove lui guarda, là, verso il Cie che hanno appena riaperto, oltre la linea della ferrovia, oltre la nebbia , lì dove provano a impedire il colmarsi di tutte le nostre lontananze, lì dove vogliono mettere in carcere, non solo le persone, ma anche lo spalancarsi di tutti i nostri destini possibili.
E’ l’arroganza di una chiusura, la presunzione di un regime così miope e ignorante che fa scoppiare la città in una bolla di vuoto.
Meno male poi arriva il piccolo rom delle rose. Come al solito mi strattona i calzoni. Una rosa. Una rosa. Annuire sì, soprappensiero. Resterò con loro. Con gli inquilini di questi condomini.
Con il vecchio infermiere del piano di sotto. Lui suona il violino di notte, di solito una lenta ballata ungherese. Pare che mi voglia dire: – di tutto ciò che ho nel cuore, più di tutto, mi pare di amare il suo battito.

Guarda dov’è che si vede Shanghai
in fondo ai viali di Vienna
la sua sagoma si accenna
inconfondibile in mezzo al via vai

L’ho detto tante volte a Joséphine, la città che vuole riaprire i Cie è un grumo. E’ un patetico sarcoma nel flusso inarrestabile della corrente del moderno.

Ma lei scrolla le spalle insofferente. E mi offre il suo piccolo disappunto mentre borbotta di identità da salvare e di radice territoriale .

Mi fa ridere Joséphine. Non ha ancora capito che la città parte dall’illusione di un’identità locale, sì, ma poi si rassegna a fluire.
Non ha ancora capito che mano a mano che l’abitato procede verso l’esterno, il cuore della gente si placa.
Che, appena fuori centro, i portici si diradano e, in cima alla arteria grande, si cominciano a scorgere orizzonti fondi e, insieme a questi, la necessità di vivere senza nausea l’appartenenza al mondo di tutti.
E ancora più all’esterno poi, nella periferia vera , sono le superstrade e la nuova architettura popolare che inducono la gente a sentire che l’unica vera patria è nel luogo in cui le identità si possono scambiare.
Che non ci si può più sentir qualcosa in base ai luoghi. Questo insegna la periferia. Quartieri. Città. Continenti. Più che apparire la differenza appare l’uguale.
E se ogni tanto si ha nostalgia di qualcosa, qui, da questa corona di edifici sparsi, si ha nostalgia di qualcosa che non si è vissuto, delle periferie che verranno dopo, di un rotolare nel sogno meticcio.

Milena Magnani

> Estratti video:

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Chiudere i Cie con la forza di un antagonismo di classe unito

Un paese che rinchiude in carcere chi fugge da guerre, regimi totalitari e atrocità, o anche solo chiunque arrivi nel nostro territorio clandestinamente, senza carte VISA e prenotazioni in qualche bell’hotel di lusso, è un paese indegno di definirsi democratico. Carcere, di questo si tratta quando parliamo di CIE, quando vediamo a cosa sono serviti e servono. Tutti i CIE dovrebbero essere chiusi ora. Figuriamoci riaprirli. Il balletto dei costi, quasi potesse essere questo l’argomento, è qualcosa di ripugnante. Proprio qualche giorno fa l’ennesima carretta del mare si è abissata a 40 miglia dalle coste libiche. E il carico umano che trasportava ha dato il suo contributo. Non di due, tremila euro a persona, ma la vita. Oltre 200 migranti in fondo al mare, nell’ennesimo viaggio di disperati che sognano l’Europa e trovano in Italia i CIE. E Renzi che si lamenta con Bruxelles: aiutateci a gestirli meglio, no? Questo sì un kapò.

Istituiti nel 1998 dalla legge sull’immigrazione Turco Napolitano (art. 12 della legge 40/1998), i Centri di Permanenza Temporanea, oggi denominati CIE (Centri di identificazione ed espulsione) sono strutture detentive dove vengono reclusi i cittadini stranieri sprovvisti di regolare titolo di soggiorno. Così recita la burocrazia.
Una perfetta continuità, con sfumature irrisorie, tra i governi di centrosinistra e centrodestra: come per le politiche di massacro sociale dettate da quei criminali che si fanno chiamare tecnici di Bruxelles dell’Unione Europea. Una perfetta e voluta continuità.

Non hanno intenzione di chiuderli, non li chiuderanno. Forse adotteranno misure da spazzatura sotto il tappeto. Per non far vedere più quello che per esempio accadeva al CIE di Lampedusa, dove una cooperativa di Legacoop che aveva in appalto i servizi, metteva in fila e faceva spogliare nudi i migranti per disinfettarli, come a Mathausen. Solo delle foto scattate fortuitamente hanno rivelato questa vergogna. E se “la Coop sei tu”, c’è poco da stare allegri.

Carmilla, l’intera redazione, porta i suoi saluti alla vostra iniziativa. E’ un’occasione importante per tornare all’azione politica contro i CIE, per continuare quell’opera di controinformazione militante, ma anche quotidiana, che non dovrebbe mai essere abbandonata.
Se restassimo però nell’ambito umanitario, non andremmo al cuore della questione. La politica forcaiola dei respingimenti, dei CIE, della clandestinità ha una sua precisa funzione nel nostro mercato del lavoro. Clandestini, ricattabili, senza garanzie e tutele: i migranti servono così. Servono alle cooperative emiliane, dalla Granarolo ai vari hub della logistica. Servono ai padroncini veneti, servono a tenere basso il costo del lavoro, ben integrandosi con le misure di schiavitù precaria che proprio in questi giorni il governo Renzi ha varato. Servono nella guerra tra poveri per aumentare diffidenza e xenofobia, e con i media che ci mettono del loro, con quella scienza goebbelsiana dell’emergenza perenne e del nemico.
Servono dunque nella guerra contro i poveri, contro cioè le classi popolari che i centri di comando del capitale, la loro classe politica, i governi bipartisan, dal 2011 non eletti da alcun cittadino, hanno dichiarato con le loro politiche antipopolari e antidemocratiche.

L’intera compagine reazionaria lo vuole, vuole imporre questo status quo e, se possibile, peggiorarlo. Lo vuole questa espressione di privilegi, certo grumo di comitati d’affari, mafie, clientele, ma principalmente espressione di una speculazione finanziaria volatile, transnazionale su cui volano le rendite, accomunando i rentier da Berlino a Madrid, da Milano a Parigi. Gli stessi personaggi che, per esempio, a Bologna sono il potere che la giunta Merola rappresenta, che il PD si premura di affermarne gli interessi in ogni campo.
E se tocchi il potere, scatta la magistratura compiacente. Come le ultime denunce partite la scorsa settimana a carico di compagne e compagni di ROSS@ e di altre realtà antagoniste, andati a contestare il jobs act e il PD nel sancta sanctorum del regime in quel momento a Bologna: la presentazione dei candidati piddini alle Elezioni Europee.

La lotta dunque, o è lotta a tutto campo, anticapitalista, o resta un’arma spuntata. Contro i CIE e il razzismo, per i diritti dei migranti, contro la precarietà e le politiche di massacro sociale, Bologna non è solo un laboratorio del comando d’impresa per l’ipersfruttamento precario e le politiche securitarie di controllo sociale, ma è anche un terreno di sperimentazione e azione del migliore antagonismo sociale. Lo è sempre stata sin dagli anni ’70. Molti lavoratori migranti stanno lottando nei sindacati di lotta, hanno portato alla ribalta il grado di sfruttamento bestiale, si stanno confrontando con i rapporti di forza nello scontro con il padronato e le cooperative di kapò moderni e qualcosa ha iniziato a muoversi. Ma una saldatura politica deve compiersi tra le diverse realtà dell’antagonismo. Se un blocco sociale anticapitalista unito si rovescia sui CIE con tutta la forza culturale e democratica di base che un’unione di classe può esprimere, si può vincere in questo e negli altri fronti del conflitto sociale.
Su questo occorre lavorare. Buona serata.

La redazione di Carmilla