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La politica, la fotografia e quegli scatti inediti dell’Isola [foto+video]

Luciano Nadalini presenta “Movimenti giovanili a Bologna negli anni ’80-‘90” e ripercorre la propria carriera di fotografo, dai primi scatti della strage del Rapido 904 per Mongolfiera.

01 Giugno 2014 - 12:29

20140530_215552La foto di una strage che cambia la vita. E la fotografia intesa come mezzo per continuare a fare politica, dopo le lotte da studente prima e da operaio poi. Luciano Nadalini si racconta così, a Vag61, per la presentazione di “Movimenti giovanili a Bologna negli anni ’80-‘90”. E’ il libro da cui è stata tratta la mostra “rapita” dal dipartimento di Storia, poi riapparsa ad Atlantide sotto sgombero e passata a Vag61 perchè “i movimenti e le controculture non sono pezzi da museo”.

Dopo gli anni dell’impegno extraparlamentare, prima da studente delle Aldini e poi da operaio della Sabiem nei Comitati autonomi operai di Santa Viola, Nadalini si butta nell’avventura della cooperativa Graphic Video Press, nata con l’obiettivo di produrre pubblicazioni, video e fotografia. Ma “era nata troppo presto”, racconta il fotografo, perchè all’epoca “il mercato ancora non chiedeva ancora queste figure professionali”. L’attività della cooperativa, quindi, si concentrò sul periodico Mongolfiera, antenato di Zeroincondotta cartaceo e del nostro Zic.

Il primo servizio per questo giornale fu la strage del Rapido 904 nei pressi di San Benedetto Val di Sambro, il 23 dicembre 1984. “E’ un fatto oggettivo, le sfighe degli altri- commenta Nadalini- a volte sono le fortune di noi fotografi”. In quel caso questo concetto si concretizzò in una foto che divenne simbolo delle stragi che avevano colpito Bologna: una bambola, scorta tra i vagoni dilaniati dall’esplosione. Così “iniziò la mia carriera di fotografo, ma non sapevo neanche com’era fatta una macchina fotografica o come si poteva stampare una foto”. Dunque Mongolfiera “fu una piccola scuola nella quale cominciai a lavorare e pubblicare”, prima di ottenere un lavoro con l’Unità. Con Mongolfiera “non si campava, con l’Unità non è che si campava molto di più- ricorda Nadalini- ma almeno un po’ di soldi cominciavo a prenderli”.

Al di là delle testate, comunque, “il ragionamento che ho sempre fatto con me stesso è stato quello di raccontare con la fotografia quello che potevo raccontare prima facendo politica, nel ’68 come studente e nel ’77 come operaio. Quindi la fotografia l’ho sempre ritenuta uno strumento per comunicare un modo di pensare”. Da qui la scelta di cominciare a fotografare le occupazioni che fiorivano in città, dalle case di via Avesella alla storica Isola nel Kantiere. “Ero accettato all’interno delle occupazioni, spesso mi chiavano dicendo ‘guarda domani andiamo ad occupare, vieni’. Chiaramente io arrivavo sempre quel minuto dopo, perchè non volevo avere foto di giovani che occupavano e che quindi poteva essere materiale oggetto di sequestro e denuncia da parte della Polizia. Stavo molto attento a non creare situazioni che potevano compremettere i ragazzi”.

Tanto che molte di quelle foto “sono rimaste nel cassetto per 25 anni” e sono state pubblicate solo ora, nel nuovo libro. “Penso sia importante fare questo sforzo e cercare di raccontare alla città, specialmente ai giovani di adesso, che le lotte c’erano anche allora, che si potevano trovare anche modi più fantasiosi come la protesta dei vassoi” contro la privatizzazione delle mense universitarie.

014_00471_28Raccontare le occupazioni, però, significa anche raccontare molti sgomberi. Ad esempio, quello dell’Isola nel Kantiere. “C’era sentore che avvenisse, quindi nei mesi estivi del ’91 stazionavo perennemente in piazza San Giuseppe e stavo con i ragazzi dell’Isola, facevo le notti con loro e la mattina mi alzavo presto con loro per riuscire a vedere cosa succedeva. Posso tranquillamente dire- racconta Luciano- che la presenza dei fotografi e anche la mia faceva sì che lo sgombero non avvenisse e non si capiva cosa potesse succedere”. Poi arrivò il 16 agosto, “la mattina io come al solito mi presentai in piazza San Giuseppe. Allora i ragazzi erano usciti dall’Isola, i locali erano vuoti. Stetti lì tutta la mattina, fino al primo pomeriggio. Poi verso l’una e mezza andai al bar per prendere un panino e mangiare. Quando tornai all’Isola, e parlo del 16 agosto alle due, un gruppo di poliziotti in borghese era lì ad abbattere i muri ed entrare nell’Isola. Mi è stato raccontato che erano all’interno di un furgone parcheggiato nei pressi di piazza San Giuseppe ed aspettavano che io mi allontanassi. Non so se questa cosa è attendibile e vera, ma sta di fatto che hanno sgomberato l’Isola il 16 di agosto alle due e mezza del pomeriggio”. Nadalini fotografò gli agenti in borghese che entravano all’interno dell’Isola, armati di piede di porco: le foto, fino ad oggi inedite, sono tra quelle che compongono il nuovo libro.

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Pubblichiamo in questa pagina le fotografie della serata ed una selezione delle immagini contenute nel libro, i testi letti durante l’iniziative (tratti da Mongolfiera e dal libro “Berretta rossa”) e quattro video estratti dalla presentazione.

> Le foto della serata:

http://www.flickr.com/photos/zicphoto/sets/72157644885656686/show

 

> Una selezione delle immagini del libro:

http://www.flickr.com/photos/zicphoto/sets/72157644981459853/show

 

> I video con due interventi di Nadalini e due reading:

 

> I testi letti durante la serata:

Artigli di nostalgia

Rifugiati nell’individualismo: “Cosa mi è rimasto della pantera? Il ricordo e quasi nient’altro”

Effettivamente, la Pantera del ’90, non ha lasciato molte impronte di sé. La “normalizzazione” in atto del sistema universitario e il cambiamento istituzionale che celebrava la scomparsa definitiva del linguaggio più radicale e combattente della sinistra cosiddetta movimentista, hanno proseguito indisturbati per la loro strada. Alla faccia di quei pochi mesi incredibilmente intensi durante i quali molti “panterini”, potete ridere, si illudevano di fare la rivoluzione. Il racconto della mia esperienza è necessariamente e, forse, eccessivamente, romantico: è passato troppo tempo perché io possa ricordare nei dettagli le infinite assemblee che finivano sempre nell’ossessione del “votiamo se votare” e i magri risultati, frutto di deliranti compromessi tra le diverse anime del movimento, scaturiti dai gruppi di studio fioriti nelle diverse facoltà. Inoltre, ero molto giovane, una matricola, proveniente da un paesino della Romagna, e da un piccolo liceo di provincia in cui la cosa più di sinistra concepibile era organizzare scioperi e assemblee di istituto e la cosa più trasgressiva e politicamente impegnata era fare “fughino” (leggi marinare la scuola).

Insomma, fino a quel momento gli unici luoghi pubblici che avevo occupato erano i bagni dei bar, delle discoteche e del mio liceo, senza mai incorrere in alcuna infrazione al codice legislativo. Avevo vissuto l’emozione dei grandi assembramenti di persone solo durante le imperdibili manifestazioni nella capitale, per la pace – ne ricordo una contro l’aggressione statunitense alla Libia nell’86 – per la Palestina, contro i vari tentativi di sminuire il ruolo pubblico della scuola.
Lo ammetto, mi commuovevo fino alle lacrime, e questa era, in sintesi, la mia ingenua esperienza politica prima dell’iscrizione a Scienze Politiche di Bologna. L’unico nitido ricordo che posso trattenere dall’esperienza della Pantera è, quindi, quella straordinaria, pervadente e vitalizzante sensazione di poter finalmente vedere realizzati i grandi ideali di giustizia, e, sostanzialmente, di libera partecipazione alla gestione, ma soprattutto, al sovvertimento, dell’esistente. Fin dalle prime notizie delle occupazioni che si stavano moltiplicando in tutta Italia e alle riunioni di preparazione alle occupazioni delle facoltà dell’ateneo all’ex macello di via dello Scalo e nella mia facoltà, cominciava a maturare in me la convinzione che stava succedendo qualcosa di veramente importante.
Eravamo tantissimi, migliaia di persone. Ogni giorno conoscevo persone diverse e potevo rincontrare chiunque a qualsiasi ora del giorno. Si discuteva di tutto, dai massimi sistemi del mondo, alle proprie esperienze politiche precedenti, ai rapporti umani che dovevano perdere di ipocrisia, oltre alla famigerata legge Ruberti, l’elemento scatenante della protesta, e i sistemi economici, di sviluppo e l’organizzazione del lavoro, di cui io fingevo di essere profondamente informata, prima di scartabellare furtivamente i miei libri e quelli che giravano tra le aule e tra le altre facoltà, per tentare di capirci veramente qualcosa.

Esisteva, per la prima volta, un “noi”. Noi che occupavamo le facoltà, stabilendo cosa fare ogni giorno dalla mattina alla sera, noi che pensavamo o sognavamo un modello di società che non ci vedesse costretti in ruoli predefiniti o obbligati a seguire gli allucinanti modelli, stile giovani rampanti, che ci avevano spaccato la testa durante gli anni ’80, noi che facevamo casino perché dovevamo dimostrare che poteva esistere un modo di vivere più libero e umano, noi che, nell’organizzare feste in aula magna e a produrre striscioni o piccoli inni che parlassero della nostra lotta, ci definivamo “creativi”, prendendoci in giro da soli, noi che organizzavamo o partecipavamo a seminari incredibilmente illuminanti – almeno per me, che sentivo l’urgenza di liberarmi della mia paurosa ignoranza -, noi che prendevamo il treno, autoriducendo il prezzo del biglietto, per andare a trovare i nostri compagni delle altre città e sommergerli di fax al rientro.
E poi ci siamo divertiti un mondo!
E’ difficile spiegarlo: quando il noi è composto da centinaia di persone nella tua città, più chissà quante altre lungo la penisola e in Europa, che non condividono un semplice genere musicale ma ideali nei quali, seppur ingenuamente, hai sempre creduto, è una delle magie più grandi che possa capitare. Non esiste nessuna sostanza stupefacente che ne possa riprodurre l’illusione, nemmeno per un attimo.

Durante le prime assemblee oceaniche a S.Lucia, quando l’entusiasmo era ancora alle stelle, c’erano sì discussioni, qualche piccolo “scazzo”, ma era ancora vivo un minimo comune denominatore, una stessa anima, decisa, e proiettata verso un comune obiettivo. Già dai primi giorni mi infastidiva, però, una sorta di dualismo che non riuscivo a decifrare nel linguaggio di alcuni figiciotti: non sopportavo il loro modo di parlare da burocrati, la strisciante volontà di scendere sempre a un compromesso con quelli che io avevo già individuato come acerrimi nemici, le istituzioni e gli studenti che sbraitavano contro l’occupazione, e quel loro liquidare le persone che io stimavo di più e con cui mi ritrovavo sempre più spesso, come i “soliti autonomi”, o fanatici, proprio coloro con cui, rimanendo a parlare fino all’alba chiusi nei sacchi a pelo e, preferibilmente, con un cannone in bocca, avevo imparato un sacco di cose.
Qualcuno che si vantava di essere organizzato un giorno mi disse che i miei atteggiamenti erano da “cane sciolto”. Malgrado l’espressione infelice, lo presi come un gran complimento. Comunque, avevo già assaporato da un po’ di tempo la bellezza del conflitto. Gli scazzi continuavano a moltiplicarsi, il noi era sempre meno vasto, il movimento si era ossessivamente imbrigliato nella ricerca di una definizione di rappresentanza e democrazia diretta, per cui sembrava impossibile prendere una qualsiasi decisione, a differenza di Palermo, a Bologna il movimento non era riuscito a coinvolgere la città, i fgiciotti cominciavano piano piano a salire sempre più numerosi sul treno del partito (il PCI) che andava trasformandosi (fino alla svolta della Bolognina) e che andava redigendo una legge alternativa alla Ruberti, praticamente la sua fotocopia, con qualche inutile abbellimento, l’interesse calava vertiginosamente.
Ma l’ideale, la voglia di arrivare fino in fondo, era sempre più forte, insomma, non avrei mai rinunciato a quella magia e, per me, l’unica soluzione, era giocare al rilancio, mettere sul piatto della protesta, non solo la legge, ma il sistema stesso, dall’asfittica (disin)formazione universitaria, alla necessità anche solo di concepire la liberazione del lavoro anche se non avevo mai lavorato in vita mia. Noi dovevamo continuare ad esistere, tutto qui, essere pronti ad intervenire, a dire la nostra, appena succedeva una qualunque prevaricazione, anche in altre parti del mondocpoi non importava se non si vedevano risultati, morire significava rinunciare per sempre ad ogni piccolo miglioramento dell’esistenza collettiva. Eravamo rimasti in pochi, ma, per me, presto, sarebbero tornati tutti. Ad un certo punto, a Scienze Politiche eravamo rimasti in venti ad occupare quattro misere aulette, le altre erano state cedute in seguito all’approvazione di una serie di ridicole mozioni, e non avevamo ancora ottenuto niente. Una enorme illusione, con tutta l’ingenuità dei vent’anni, al momento del fallimento, si è trasformata in potente delusione.

Ho trascorso il mese successivo allo sgombero della facoltà, nel mio paesello della Romagna, in preda a una depressione cosmica, coi miei genitori convinti che fossi diventata una terrorista, anche se inizialmente avevano appoggiato caldamente l’occupazione (mia mamma sfornava per gli occupanti delle gustosissime torte di castagne..!).
Siamo stati gli ultimi. Anche i più disincantati di me, hanno subito una cocente delusione. Come un enorme masso di granito è piombata sulle nostre teste la consapevolezza che non sarebbe stato più possibile un movimento di massa.
Chi è rimasto all’università ha continuato, come me, ha entrare o “fondare” i vari collettivi o a partecipare, quasi per gioco, alle mini occupazioni-farsa che si sono susseguite nel corso degli anni, in occasione di un taglio di appelli o di un aumento delle tasse universitarie. L’entusiasmo non è mai stato lo stesso, anche se in uno di questi collettivi ho ritrovato, per un certo periodo una sorta di “magia del noi”.
Non ho mai più avuto più voglia di parlare in pubblico, cosa che mi esaltava durante la Pantera, e ho assistito inerme al susseguirsi incessante degli stessi errori e degli stessi cedimenti, nonché un calo esponenziale di coscienza politica tra le masse studentesche. Altri hanno provato la strada dei centri sociali – ricordo il mitico Pellerossa di Piazza Verdi – o si sono riuniti in collettivi quali i Precari Nati o Il Comitato internazionalista Che Guevara, e i figiciotti sono diventati pidiessini, altri “rifondaroli”. Altri ancora sono letteralmente scomparsi. Ci siamo dispersi.  Una volta laureata mi sono chiusa in un ostinato individualismo, ma ho scoperto che moltissimi altri hanno fatto lo stesso, con una buona dose di rabbia e di totale, sconcertante, disillusione.

Luciana
(tratto da Mongolfiera)

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Il lattaio dell’Isola nel Kantiere

Nerio era da anni “il lattaio di via Galliera”… Sapeva tutto di quella strada… Di giorno, la osservava dalla sedia collocata, come una garitta, davanti all’entrata del negozio. Di sera, abbassata la saracinesca, se ne stava alla finestra del suo appartamento, proprio di fronte alla latteria. Oltre la strada, era territorio di Nerio anche la piazzetta di San Giuseppe che da anni si era trasformata nel cantiere infinito dell’Arena del Sole, il vecchio cinema di via Indipendenza che doveva essere trasformato nel “teatro della città”. Quel recinto di lamiera che proteggeva dalla vista betoniere ed attrezzi abbandonati e quella gru di ferro che svettava tra i palazzi storici (“la torre Eiffel dei poveri”, la chiamava Nerio) erano un pugno in un occhio anche per l’anziano lattaio, che di cose hard ne aveva viste dai suoi punti di avvistamento.
Una sera gli venne da pensare che era molto meglio il periodo in cui la piazzetta era frequentata dai tossici e da un gruppetto di anarchici incazzatissimi. E non tanto perché, un tempo, per la gran richiesta, la birra da 3/4 la smerciava a cartoni interi. Il suo commercio era sopravvissuto a tanti cambi di clientela. Avevano ancora un discreto successo le Simmenthal in scadenza o le scatolette militari recuperate chissà dove. I muratori e i manovali “marocchini” (lui chiamava così sia i nordafricani che i siciliani e i calabresi) mangiavano e bevevano, come i tossici, ed erano sempre incazzati e scorbutici, come gli anarchici.

No, quello che gli dava fastidio era il cantiere abbandonato che stava uccidendo quel piccolo pezzo di città. E cominciava a risentirne anche lo “spaccio di panini alla coppa di testa”, l’attività che l’aveva reso famoso anche al di fuori della zona.
La coppa di testa con cui Nerio riempiva i “barillini” arrivava da un salumificio della bassa ferrarese, poco distante da Comacchio. E veniva ottenuta da un impasto di lingua e carni magre cotte, prelevate dalla testa del maiale.
«Ma la tua coppa viene insaccata in un budello di bovino o in un sacco di iuta?» gli domandò un giorno un ragazzo dai capelli spargugliati, non proprio vestito bene, con un sorriso che andava da orecchio a orecchio.
«Nel sacco di iuta… Così la fanno solo in un salumificio dalle parti di Comacchio» rispose Nerio, stupito dalla cultura “insaccata” del ragazzo.
«Credo che sia lo stesso salumificio dove va a comprare le salame da sugo mio padre… Io sono di quelle zone, è per questo che mi hanno dato il soprannome Cmâc, Comacchio in dialetto» interloquì ancora il giovane avventore.
«Non ti ho mai visto nel mio negozio, dove abiti?» chiese Nerio.
«Sono nelle case occupate di via Avesella. Siamo ai numeri 12, 30 e 32, ma puoi considerare dei nostri anche quelli dell’appartamento occupato in via Don Minzoni, sopra all’Ufficio elettorale del Comune» disse Cmâc addentando il panino. «Se li fai sempre così buoni i barillini alla coppa, nel giro di poco tempo avrai una nuova clientela e dovrai aumentare le forniture».
«Nessun problema» sorrise Nerio, «per me è un piacere spacciare salumi e birra, meglio di tanta altra robaccia che gira qua intorno».

E così, tra il lattaio di via Galliera e i ragazzi delle case occupate partì uno scambio quasi quotidiano di informazioni: loro sulla vita da squatter, lui sulle storie della sua gioventù e gli appartamenti vuoti e inutilizzati della zona.
Un giorno, Nerio vide una fila di muratori che, incolonnati e con il caschetto, dopo aver armeggiato per un po’ al cancello d’entrata, aprivano il cantiere.
gEra ora che riprendessero i lavori”, sospirò tra sé e sé il lattaio. Ma, guardando meglio, si accorse che quelli non erano operai edili, ma un gruppo di ragazzi delle case occupate. Sorrise, pensando alla sorpresa imminente.
E, infatti, erano lì per occupare una palazzina al numero 8 della piazzetta San Giuseppe. Avevano saputo di un appartamento vuoto, con un grande terrazzo, da un elettricista. Un tipo che ricavava il rame da pezzi recuperati e a cui loro vendevano partite di “oro rosso”.
Sì, avete capito bene, i punk delle case occupate, per vivere, andavano a svaligiare le fabbriche abbandonate e portavano via centinaia di metri di cavi elettrici… E quando nei capannoni in disuso il rame non si trovava, c’era sempre la ferrovia, e da lì non andavano mai via a mani vuote.
Poi il bottino veniva portato in un luogo appartato a Casaglia e, lontano da occhi indiscreti, avveniva la divisione tra la plastica e il rame, attraverso fuochi dai fumi talmente tossici che la diossina di Seveso era una bazzecola.
Per questa attività si sporcavano all’inverosimile e non è che il nero della fuliggine se lo togliessero via con tanta facilità. Nerio, che qualcosa doveva aver immaginato, spesso li prendeva in giro: “Ragazzi, io questa mattina ho fatto la doccia e non sono affogato… Provate a farla anche voi e vedrete che non è così pericoloso”.

Poco dopo aver occupato l’appartamento, più per curiosità che per scelta, i ragazzi vollero alzare una serranda al piano terra della palazzina. Si trovarono davanti a un muro. Decisero di abbatterlo e di fronte ai loro occhi si aprì un “mondo”. Quello spazio divenne la loro isola di libertà, per questo decisero di chiamarla “Isola nel Kantiere”.
Si era alla fine dell’estate del 1988…

(tratto da “Berretta rossa”)

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Il Pellerossa

Se ci fosse un esame di storia dei movimenti a Bologna, un quesito impegnativo non potrebbe non riguardare piazza Verdi. Per esempio, non sono in molti a sapere che nell’ufficio adibito a box office della polizia municipale, un tempo, subito dopo il ’77, c’era uno spazio occupato, soprannominato “il bunker”. Fungeva da sede dei Collettivi politici territoriali, che facevano capo ad Autonomia proletaria, una scheggia fuoriuscita da Autonomia operaia… li frequentava giovanissimo un tal Rossano, detto Steck, che diventerà poi uno dei leader del Livello 57.
Una seconda domanda: siamo sempre in piazza Verdi, oggi le Scuderie sono un locale gestito da privati, convenzionato con l’università, negli anni precedenti cosa è stato?…
La Risposta…. Tra la fine degli anni Settanta e la prima metà degli anni Ottanta è stata la sede della mensa universitaria. Per questi motivi fu occupata diverse volte e autoridotta altrettante. Gli scioperi dei vassoi erano all’ordine del giorno, per cui l’Acostud decise di chiuderla e predispose un progetto di riqualificazione di tutta via Zamboni 25 e di Palazzo Paleotti, le scuderie erano infatti le stalle del palazzo. Fu tirato dentro anche Umberto Eco, si parlava di sale studio con 120 postazioni internet, di foresteria per docenti e studenti di altri paesi… dopo una ristrutturazione che costò al Comune più di cinque miliardi di lire, non se ne fece nulla… lo spazio rimase vuoto diversi anni, finché il 28 aprile 1993 il salone dell’ex mensa centrale venne occupato. Gli occupanti fecero subito sapere che il centro avrebbe preso il nome di CSOA Pellerossa e sarebbe stato aperto a tutti coloro che avrebbero utilizzato il posto per attività culturali e sociali in autonomia dai circuiti tradizionali. Sarebbe diventato un luogo per concerti.

Con il Pellerossa, piazza Verdi divenne il cuore pulsante (questo era lo slang degli occupanti) della vita underground bolognese. Allo stesso tempo, quei comportamenti infastidivano i residenti benpensanti che cominciarono a organizzarsi in comitati e a scrivere lettere al “Resto del Carlino”. C’era anche una sorta di regolamento non regolamentato per i fruitori dello spazio: “Se arrivi al Pellerossa per un concerto con mille lire in tasca, se ti chiedono soldi per l’ingresso, tu spieghi che hai solo mille lire e le vuoi spendere per comprarti una birra dentro. Spesso e volentieri ti lasciano entrare”. Ad uno che adesso gestisce un blog col nome di Sartoris chiesero di fare un murale indiano e lui lo fece… ed oggi ha messo le foto sul suo blog… Al Pellerossa c’erano alcune sale prova musicali, un laboratorio teatrale, spazi espositivi, una mensa autogestita a prezzi politici.

Al Pellerossa i concerti iniziarono con la serata intitolata “Fanculo la pula!”, poi ci furono i 99 Posse, i Sangue Misto, Asher D, Radical SP, Radio Rebelde, Ritmo Tribale, Offspring e NOFX.
Si cominciò a parlare del Pellerossa in città, dopo che Papa Ricky, durante il concerto della Banda di Avanzi in piazza Maggiore, raccontò dell’occupazione.
Prima dell’arrivo dei pellerossa, piazza Verdi si era trasformata da anni in un ghetto dello spaccio e della tossicodipendenza. Gli occupanti si rimboccarono le maniche e affrontarono “laicamente” il problema. Ma alla città ufficiale poco importava se gli “indiani” lavoravano per liberare la cittadella universitaria dallo sporco mercato della droga e dai venditori di morte, rivitalizzando un luogo chiuso da anni. Alla città ufficiale importava di più il sonno dei dirimpettai. Così il Pellerossa, l’11 agosto 1993, venne “aperto”, sgomberato e murato da polizia e carabinieri. Era rimasto “liberato” per meno di cinque mesi.

(tratto da “Berretta rossa”)

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Roversi Monaco: un Magnifico Rancoroso

Per tanti, troppi, anni Fabio Roversi Monaco, il Magnifico Rettore dell’Università di Bologna, fu soprannominato il “Monarca di via Zamboni”.
Uomo di incerti principi per quanto riguarda la “forma”, è sempre stato (e lo è tuttora) molto severo (e geloso) per quanto riguarda la “sostanza”.
Una decina di anni fa, era in “odore” di Ministro per l’Università del governo Berlusconi, lo si vedeva impettito in prima fila a tutte le capatine che Gianfranco Fini faceva a Bologna: chiedete al suo amico Filippo Berselli della “commovente” lettera di felicitazioni che ricevette per l’affermazione di A.N. in città.
Ma, senza troppi pruriti, il Rettore era saltato più volte anche sull’altra sponda: a lunghi periodi di conflittualità con la Municipalità e con il Pci/Pds alternava momenti di grande “clima collaborativo”. I “suoi” miliardi diedero una mano a Bologna per fare il grande balzo verso l’Europa. I soldi della “sua” Università servirono per un decoroso addio del Pds a via Barberia, l’ex carcere di San Giovanni in Monte è diventato un gioiellino di cui andar fieri in città per merito suo. Se i cantieri della ex Sala Borsa furono riattivati e la grande/ambiziosa biblioteca multimediale un giorno vide la luce, è perché il “cassiere di Piazza Verdi” sganciò i suoi dobloni. Anche il Progetto dell’ex Manifattura Tabacchi potè decollare perché “l’uomo dalla Toga” disse “sì … ci sto anch’io”?
Tutta questa grande generosità fu ricambiata dal sindaco Vitali con l’accordo sul Politecnico al Lazzaretto (gli oneri di urbanizzazione completamente regalati). Era una specie di ringraziamento postumo perché nessuno gli aveva mai chiesto il conto della “sostanza”, nessuno aveva mai preteso la trasparenza della “sua” cassaforte, vero sancta-sanctorum del suo incontrasto, ultradecennale regno accademico.

Solo nel 1990, in un appello di solidarietà che un gruppo di intellettuali rivolgeva agli studenti denunciati da Roversi Monaco per il Movimento della Pantera, vennero sollevate alcune preoccupazioni: «Il costituirsi nell’Università di un potere separato e verticistico, in forza di interessi che rischiano di sfuggire a un pieno controllo democratico, riguarda tutta la città». Ma quelle ansie non coinvolsero nessun altro al di fuori di chi le aveva esternate. Il Rettore stava, al momento, vivendo di rendita sui fasti e gli splendori del IX° Centenario dell’Alma Mater Studiorum. Quello fu il suo capolavoro. E’ in quegli anni che si avviò un processo di trasformazione dell’Università (e del rapporto tra Università e mondo sociale): maggiore integrazione con l’industria (cioè la subordinazione all’industria sia nella finalizzazione della ricerca, sia nella formazione dei laureati), concepimento dell’Università in termini d’impresa.
Roversi rappresentò il “nuovo”, il “moderno”, il “razionale” e così sull’Ateneo bolognese arrivarono parecchi soldi, sia quelli pubblici provenienti dai Ministeri, sia quelli delle grandi industrie (gli “asini generosi”, a cui erano state distribuite lauree ad honorem in gran quantità furono riconoscenti).
Alla fine di quel 1987 così altisonante, i collettivi studenteschi universitari portarono avanti una solitaria battaglia contro gli sfarzi del IX° Centenario, chiesero all’Autorità Accademica di discutere pubblicamente il contenuto delle manifestazioni culturali previste per le Celebrazioni, la funzione degli investimenti nelle strutture di ricerca e didattica, di comunicazione e di informazione. Chiesero la disponibilità a rendere pubblici i conti, non per insinuare sperperi in illeciti interessi privati, ma per poter discutere i preventivi, i bilanci, le previsioni, gli stanziamenti. Chiesero di non essere esclusi, come studenti, dalla vita dell’università.
Nessuno naturalmente si preoccupò di dare la pur minima risposta e intanto, il 17 novembre 1987, l’apertura delle Celebrazioni del IX° Centenario vide la cacciata violenta dei collettivi studenteschi da parte delle forze di polizia. A rappresentare gli studenti nell’Aula Magna di Santa Lucia solo tre goliardi, nemmeno ai rappresentanti studenteschi istituzionali fu permessa la presenza. Un Roversi Monaco infastidito dichiarò ai giornali dell’epoca: «Ringrazio le forze dell’ordine che hanno permesso l’agibilità. Quegli studenti non rappresentano nessuno… La polizia si è limitata a tutelare gli ospiti del convegno di fronte a una manifestazione di cui mi sfuggono le finalità e che trovo disgustosa…».

Si sa, Roversi è sempre stato un “magnifico” rancoroso, le critiche non le ha mai digerite, in qualche modo è sempre riuscito ad avere gli organi di informazione dalla sua, ha sempre avuto il fronte dei docenti (da destra a sinistra) “graniticamente” ai suoi piedi, solo gli studenti, in alcuni momenti, si sono permessi di “rompergli le uova nel paniere”. La sua concezione del potere (pardon del comando) ha poco da invidiare rispetto a quella dei “monarchi assoluti” e, puntualmente, la sua vendetta si è sempre abbattuta sulla testa dei “non allineati”: 21 denunce per le manifestazioni studentesche del novembre ’87, 127 per le occupazioni delle facoltà universitarie nel 1990 durante il Movimento della Pantera.
Agli studenti che lo contestavano mandò, infastidito, un messaggio attraverso le veline dei giornali: «… e la smettano di dire che non c’è libertà… non se ne può più».

(tratto da Mongolfiera)