Attualità

La catastrofe italiana e l’apparizione di un nuovo movimento

Quello che pubblichiamo è un intervento fatto durante la conferenza Kafca (Knowledge Against Financial Capitalism) tenuta da Scepsi 
l’1, il 2 e 3 dicembre al Macba, il Museo d’Arte contemporanea di Barcellona.

05 Dicembre 2011 - 15:07

di Valerio Monteventi

LA CADUTA LIBERA DEL CAPITALISMO GLOBALE

Nei mesi scorsi mesi, il fallimento del neoliberismo è risultato sempre più evidente. A colpi di declassamenti finanziari e crolli di borsa, sono stati gli andamenti dei mercati a dettare le regole del gioco.

Il capitalismo globale è ormai in caduta libera e la sua crisi sembra ormai irreversibile. Ma quando si sta per crollare ci si aggrappa a tutto per tenersi in piedi. Pertanto la sua ultima ancora di salvezza è rimasto il debito.

Il debito delle famiglie con i mutui subprime che ha generato la crisi.

Il debito sovrano degli stati, classificato in base alla possibilità di essere restituito.

Il debito pubblico che pesa sulle vite dei cittadini senza che si sappia chi l’ha contratto con chi.

Il misterioso debito monetario legato a qualunque banca centrale in grado di stampare moneta.

Poi c’è il debito dei singoli e delle famiglie con le famiglie stesse e i loro risparmi, con gli istituti di credito, le finanziarie, le agenzie di riscossione dei debiti.

Con il debito hanno istituito il ricatto e, al di là dei rapporti di lavoro e di sfruttamento, hanno fondato la precarietà esistenziale.

Le democrazie liberali che nei decenni passati hanno in qualche modo autorizzato questo processo, oggi abdicano nei confronti dei diktat della Banca Centrale Europea e del Fondo Monetario Internazionale.

Il nuovo ordine mondiale assomiglia sempre di più a una dittatura finanziaria globale.

Il quadro di comando che ne consegue si concentra sull’attacco alla ricchezza sociale, al sistema dei diritti e delle tutele.

Vorrebbero abolire la contrattazione del lavoro, attaccando i contratti collettivi e riducendo le condizioni di lavoro a una sorta di “caporalato universale”, che nella precarietà ha il suo punto di forza.

La “crisi” di questi anni è stata anche crisi del welfare. C’è stata una tendenza spinta verso lo stato sociale minimo, nel quale il salario indiretto dei precari e dei lavoratori, sotto forma di diritti esigibili, è stato in più punti tagliato. Per via dei “patti di stabilità”, imposti a livello europeo sul debito pubblico, le politiche monetariste dei vari governi centrali si sono concentrate sui provvedimenti di austerità che hanno portato alla fame i settori più deboli della popolazione. E’ in atto un attacco senza precedenti al modello di welfare europeo, l’unica vera differenza che rimaneva col modello sociale americano.

Siamo lontani anni luce dal Roosevelt che reagì alla crisi del 1929, negli Stati Uniti, con un forte intervento pubblico (perché riteneva che il nodo fosse la questione sociale), ma siamo distanti anche dal liberale John Maynard Keynes che rifletteva sulle catastrofi derivanti da un sistema totalmente affidato al mercato, opponendo un compromesso fra capitale e lavoro che fu alla base delle politiche di ricostruzione europee, con l’allargamento dei diritti sindacali e un ruolo crescente delle istituzioni del welfare.

L’attuale Unione Europea non si è costituita su una più avanzata democrazia sociale, ma è nata esclusivamente come moneta comune, con le conseguenti politiche monetarie consegnate alla leadership della Banca centrale. Si è proceduto con una unificazione della moneta fra paesi di differente struttura economica e politica, di diversa composizione sociale, legislazione e cultura. Il Patto di stabilità è stato l’unico vero collante e ha costretto, con la presunta oggettività delle leggi economiche, alla omologazione le strutture e le istituzioni dei singoli paesi.

Oltre ad aver agito sul piano del controllo dei conti pubblici dei singoli stati membri, l’UE ha contemporaneamente dispiegato  una retorica sul welfare che reintroduce la responsabilità individuale rispetto alla propria condizione di bisogno, producendo così una moralizzazione del discorso che soggettivizza le problematiche e depoliticizza la questione della povertà così come quella del lavoro. Sono i soggetti che devono dimostrasi “degni” di veder riconosciuti i propri bisogni, che non a caso vengono ridefiniti come “bisogni” (la cui definizione non si sa bene a chi spetti ) e non come diritti da esigere. L’attenzione è posta direttamente sui destinatari, di cui si dovrà misurare la volontà di uscire dalla situazione di disagio, invece che sulle condizioni sociali e i contesti di vita in cui sono immersi. I dispositivi di workfare e le politiche attive ci parlano proprio di questo.

Questo processo vuole ridefinire il nocciolo del rapporto tra lavoro, welfare e cittadinanza, e di conseguenza incidere sulle modalità di accesso alla proprietà sociale. Il welfare storico si articolava sulla base della definizione e distinzione di alcuni beni comuni, l’accesso ai quali era da considerarsi come patrimonio cardine della cittadinanza (salute, istruzione, garanzie dai rischi sociali etc. etc).

Lo Stato sociale si fondava sul principio di uguaglianza sostanziale da cui derivava la finalità di ridurre le diseguaglianze sociali. Questa presupposto l’Unione Europea l’ha cancellato. Per esempio, il diritto dei lavoratori europei di avere stipendi, vite e condizioni lavorative migliori, è ormai considerato un lusso da tenere sotto controllo.

A questo proposito, anche la Corte di Giustizia Europea sta facendo la sua parte, ci sono stati almeno quattro giudizi separati che obbligano i lavoratori ad accettare salari sotto la norma, persino quando lavorano in paesi con forti leggi a protezione dei lavoratori, come la Svezia o la Finlandia.

In più, lo scorso 28 settembre, la Commissione Europea ha approvato un pacchetto di misure, chiamato “six-pack”, secondo il quale i governi nazionali dovranno rispettare le raccomandazioni del Trattato di Maastricht, note anche come “Patto di Crescita e Stabilità” . Non saranno tollerati deficit superiori al 3%, né debiti nazionali superiori al 60% del PIL.

In caso di ulteriori indecisioni o titubanze da parte degli Stati membri, la sanzione può comportare il deposito o il pagamento a fondo perduto, fino allo 0,05% del Prodotto Interno Lordo del paese all’Unione Europea, a seconda di come  venga giudicata la non conformità dello Stato.

 

Sul Financial Times, Martin Wolf, per descrivere questa situazione dell’Europa, ha deciso di parafrasare Tacito: “hanno creato un deserto e lo chiamano stabilità”.

In questo deserto, le forze socialdemocratiche o di centro-sinistra, pensano ancora che la crisi, scoppiata nel 2007, sia  una catastrofe accaduta all’interno di un sistema economico sano e rimpiangono l’economia capitalistica prima della crisi. Il loro errore, però, è grossolano… si potrebbe tranquillamente dire che non hanno capito nulla: non siamo più nel 1992; da allora non è cambiato solo il secolo, ma tutto il contesto.

Oggi non c’è più la decisione politica sovrana dello Stato nazionale.

La modalità classica di governo, attribuita ad un’entità statale e legittimata dal voto popolare, è stata accantonata.

Di fatto, c’è un commissariamento transnazionale che si realizza attraverso una forma di governance oligarchica sul terreno economico (FMI, BCE, vincolo del debito, sfida alla globalizzazione, giudizio dei mercati) e attraverso il comando politico-militare degli USA e della NATO.

E’ per questo che, a prescindere dalle forme politiche dei regimi occidentali (conservatori o riformisti), sono il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Centrale Europea a dettare l’agenda politica dei vari paesi, con le agenzie di rating (che, è bene ricordarlo, sono società private) che danno il voto sulla solidità economica degli Stati e possono declassare un paese, favorendo la speculazione e influenzando fortemente l’andamento dei mercati… O preannunciare, come hanno fatto in questi giorni, che “l’incertezza politica in Grecia e in Italia e il peggioramento delle prospettive economiche” fanno aumentare le probabilità di più default fra i paesi dell’Area Euro, con la possibilità che uno o più paesi escano da Eurolandia.

In questo contesto, è evidente che non sono le misure dei governi degli Stati a determinare l’andamento di uscita dalla crisi stessa, ma, ugualmente, sia i conservatori sia i riformisti sono uniti sulle strade da intraprendere.

Nella prima fase della congiuntura hanno sborsato quantità esorbitanti di denaro pubblico per socializzarne i costi.

Ora stanno smantellando gli ultimi residui di welfare e i i sacrifici li devono fare, come al solito, i ceti meno abbienti, i precari e i lavoratori.

Questo “stato di eccezione”, in Europa, si è unificato attorno al diktat economico che impone di “fare come in Grecia”. Per sanare i conti pubblici vengono tagliati i salari, le pensioni e lo stato sociale.

 

E’ IL TURNO DELL’ITALIA

Spagna, Francia, Romania, Irlanda e Portogallo hanno già cominciato. Adesso è il turno dell’Italia.

In Grecia gli stipendi pubblici sono stati ridotti del 20%, in Romania del 25%; la Spagna, come il Portogallo, annuncia tagli del 5%.

È caduta anche la maschera che copriva, con l’inflazione, la compressione di salari e stipendi.

Oggi i governi lo fanno direttamente, in spregio ai contratti e ai diritti acquisiti dei lavoratori. Siamo già molto oltre l’attacco al contratto collettivo, con effetti altrettanto devastanti.

Tutti questi obiettivi li abbiamo ritrovati nelle varie manovre del governo Berlusconi: uno spropositato aumento dello squilibrio nella distribuzione della ricchezza sociale (enorme spostamento di ricchezza a favore dei potenti, una sorta di rapina in banca rovesciata, con i banchieri e i colossi della finanza che fanno incetta di ogni bene e servizio in circolazione avvalendosi di una fitta rete di “estorsori” pubblici e privati), un’operazione di sottrazione massiccia del potere d’acquisto dei salari, dei redditi diretti e indiretti, del welfare e di ciò che rimaneva dell’assistenza sociale.

E’ stata una lettera, del 5 agosto, della BCE, firmata dal presidente uscente, Jean Claude Trichet, e da quello entrante, Mario Draghi, a dettare le condizioni: piena liberalizzazione dei servizi pubblici locali, in particolare alla fornitura di servizi locali attraverso privatizzazioni su larga scala; riforma ulteriormente del sistema di contrattazione salariale collettiva, permettendo accordi a livello d’impresa in modo da ritagliare i salari e le condizioni di lavoro alle esigenze specifiche delle aziende (sulla falsariga dell’accordo del 28 giugno tra Confindustria e sindacati confederali CGIL CISL e UIL); accurata revisione delle norme che regolano l’assunzione e il licenziamento dei dipendenti.

La lettera di Trichet e Draghi a Berlusconi ha imposto, nel concreto, il passaggio di sovranità e le decisioni di politica economica dagli Stati nazionali ad una entità sovranazionale.

In più, il governo Berlusconi ha proseguito la pratica che si è ripetuta a più riprese, con diversi esecutivi, nel corso degli anni: il taglio dei trasferimenti a Regioni ed Enti locali. Il centro-destra che ha dimostrato, più di una volta, la sua incapacità di governare, ha scaricato sugli Enti locali 9,5 miliardi di tagli ai trasferimenti, generando un forte allarme sul funzionamento prossimo venturo di servizi come asili nido, assistenza agli anziani e trasporti pubblici, e provocando un aumento delle tasse locali come l’IRPEF, alla faccia del tanto decantato federalismo.

La scure del governo si è abbattuta pure sulla scuola. Le scuole materne, elementari e medie saranno raccolte in istituti unici. Saranno quindi soppresse le istituzioni scolastiche autonome costituite separatamente da direzioni didattiche e scuole secondarie di primo grado. Le dotazioni organiche del personale docente educativo ed Ata saranno bloccate a decorrere dall’anno scolastico 2012/2013. L’organico degli insegnanti di sostegno, attribuito alle singole scuole o a ‘reti di scuole’, dovrà prevedere in media un docente ogni due alunni disabili. È l’aspetto più deprecabile di questa manovra perché consiste nel subdolo tentativo di limitare ulteriormente il diritto allo studio degli alunni disabili e non.

Complessivamente, le varie manovre del governo Berlusconi, hanno prodotto un’infinità di tagli ai settori di interesse collettivo, già così pesantemente colpiti da precedenti manovre. Il rischio che stiamo correndo è quello di vivere in un Paese in cui i servizi essenziali e le istituzioni fondamentali non sono più considerati un bene comune da garantire e tutelare, ma un fardello di cui lo Stato si deve liberare, magari per lasciare spazio, in un momento non troppo lontano, a iniziative di speculazione di qualche intraprendente cordata di imprenditori.

Dopo di che, all’inizio del mese di novembre, c’è stato il vertice del G20 a Cannes. Qui il governo italiano ne è uscito con il marchio di Paese inaffidabile, la cui solvibilità andrà costantemente tenuta d’occhio.

L’Italia è stata poi monitorata dagli ispettori del Fondo Monetario Internazionale che hanno verificato, insieme alla Commissione Europea, l’andamento dei conti pubblici e il mantenimento degli impegni presi. La sovranità limitata è stata dunque istituzionalizzata, in nome del riequilibrio nei mercati, ogni forma di modifica, anche strutturale, degli interventi in materia di lavoro, spesa pubblica, utilizzo delle risorse, crescita, verranno vagliate e giudicate da una autorità internazionale che bypasserà di fatto i poteri del parlamento.

Berlusconi è stato accantonato perché troppo interessato ai suoi interessi personali e per la sua incapacità di servire i grandi gruppi di potere. Con lui, la politica e la democrazia rappresentativa si sono degradate fino all’impotenza e alle volgarità. Negli  ultimi mesi della sua premiership il Parlamento è diventato un mercato per la compravendita di onorevoli del disonore. Questo è avvenuto anche per effetto di una legge elettorale che devasta lo stesso principio di rappresentanza, perché precisamente impedisce agli elettori di scegliere e votare i propri rappresentanti.

Paradossalmente, il governo Berlusconi si è rivelato meno affidabile agli occhi dei mercati finanziari di quanto potesse esserlo un governo di centro-sinistra.

Si è arrivati così alla caduta di Berlusconi… A quel punto, in Italia, ha cominciato a circolare una battuta: “dal paese del Bunga Bunga passeremo a quello del Banca Banca”.

Infatti, il nuovo governo tecnico di unità nazionale, presieduto da Mario Monti e sostenuto col consenso del 90% delle forze politiche parlamentari (Partito Democratico, Terzo Polo, Popolo delle Libertà, Italia dei Valori), ha tutte le caratteristiche per essere obbediente e allineato ai diktat dei mercati finanziari e delle banche.

E’ noto che l’economista Mario Monti, oltre che presidente europeo della Trilateral, è stato anche International Advisor di Goldman Sachs, una delle società finanziarie che controllano, come Deutsche Bank, il mercato dei Cds. Voci dei mercati finanziari (riportate dal quotidiano Milano Finanza) hanno confermato che è stata Goldman Sachs, così come aveva fatto nei primi mesi dell’anno Deutsche Bank, ad innescare l’ondata di vendite di Btp all’inizio di novembre, accelerando la crisi del governo Berlusconi.

Monti, da un giorno all’altro, è stato nominato dal presidente della Repubblica Napolitano senatore a vita. Ha costruito il suo governo attorno a un quadrilatero di università, tre private e una pubblica, in rete e fortemente connesse con il mondo della finanza e delle aziende private, nonché con le autorità ecclesiastiche cattoliche, la Bocconi, la Luiss, la Cattolica e il Politecnico di Torino, (il Politecnico è pubblico ma con una forte vocazione al rapporto con le imprese, e ci sarebbe molto da dire sul suo rapporto con la FIAT).

Il governo Monti se non lo si vuole definire un vero e proprio “comitato d’affari” al servizio dei “poteri forti”, è certamente un esecutivo, emanazione diretta della borghesia finanziaria e delle grandi professioni. Non a caso il suo uomo di punta è Corrado Passera, un manager che ha costruito la potente Banca Intesa.

Quando il 5 dicembre il governo Monti presenterà una nuova manovra, aggiuntiva alle altre già varate dal precedente governo, inizierà una fase ancora più dura di “macelleria sociale”. Stavolta a intervenire sulle pensioni per fare cassa sarà un personaggio di spicco della Finanza Mondiale, che potrà procedere senza ostacoli. Quando Monti interverrà sul mercato del lavoro, quando metterà in discussione l’art. 18 dello Statuto dei diritti dei lavoratori (che riguarda i licenziamenti per giusta causa), quando interverrà la precarietà, avrà l’appoggio sia del centro-sinistra sia del centro-destra. E le avvisaglie di tutto questo, si sono avute al primo discorso al Senato del neo presidente del Consiglio, quando ha confermato la volontà di portare a compimento la fase di attuazione della contro-riforma dell’università che porta il nome dell’ex ministro Mariastella Gelmini, quando ha tessuto le lodi dell’amministratore delegato della FIAT Sergio Marchionne e quando ha ribadito la sua intenzione di iscrivere nella Costituzione la clausola del pareggio del bilancio pubblico.

E’ bene ricordare che, in questi giorni, Marchionne ha manifestato l’intenzione di estendere a tutte le fabbriche del gruppo Fiat, il famoso accordo separato di Pomigliano. Un anno e mezzo fa, a Pomigliano d’Arco, Marchionne riuscì ad imporre il suo diktat. Allora in tanti dissero che quella era un’eccezione. Oggi quell’eccezione è diventata la distruzione del contratto nazionale di lavoro e la negazione dei più elementari diritti previsti dallo Statuto dei lavoratori.

Quello della Fiat è un sostanziale fascismo, perché non solo si vogliono imporre condizioni di super-sfruttamento ai lavoratori, ma si vuole anche impedire ad essi la libera azione sindacale e persino il libero voto per le proprie rappresentanze. Nemmeno negli anni Cinquanta la Fiat si sognò di abolire le elezioni delle Commissioni interne. Oggi Marchionne stabilisce un sistema extra-costituzionale ed extra-legale che cancella per i lavoratori della Fiat le libertà costituzionali.

Quello che aspetta l’Italia sarà un percorso di lacrime e sangue che porterà a sottostare a decisioni prese in contesti totalmente a-democratici. Una vera e propria condanna a pagare la crisi a chi non ne ha colpa che offrirà ulteriori margini di profitto a chi su questa crisi ha speculato e continua a speculare.

Non ci sarà di che stupirsi se il messaggio dittatoriale che è stato rivolto qualche settimana fa alla Grecia per il referendum, sarà allargato anche ad altri Paesi europei.

Ciò che oggi la situazione italiana e greca ci dicono è che democrazia non fa rima con finanza. Non è una novità. Trenta anni di liberismo hanno fatto credere che la gerarchia del “libero mercato” potesse essere compatibile con l’esercizio democratico del diritto al voto. La crisi dei debiti sovrani ha stracciato questo miserevole velo.

Del resto, quello che oggi accade in Italia e in Grecia è successo per anni nei paesi latino-americani dominati dalle dittature fasciste… E non è molto diverso da quello che avviene nei pochi Paesi africani dove il ruolo del Fondo Monetario Internazionale è sostanzialmente quello di assicurare i profitti delle banche americane e occidentali nei loro affari nel terzo mondo.

Le misure intraprese dai paesi dell’Eurozona per sostenere i debiti sovrani, e in primo luogo il cosiddetto Fondo Salva-Stati, risultano drammatiche per un paese come l’Italia. Per di più le misure di restrizione dei bilanci pubblici, che vengono richieste in cambio di quegli aiuti, aggraveranno la recessione e la stessa crisi.

L’Italia avrebbe bisogno di ben altre politiche economiche, fiscali, monetarie e salariali. La questione occupazionale e la difesa del reddito andrebbero poste tra gli obiettivi fondamentali. Invece, qui si parla sempre più di borse, di mercati finanziari, di spread e di titoli, mentre il paese reale vive una situazione sociale al limite della disperazione.

 

LA CRISI ECONOMICA HA CAMBIATO IL VOLTO DELLA POVERTA’ 

Nell’area Ocse, a luglio 2011, c’erano ancora 44,5 milioni di senza lavoro, 13,4 milioni in più rispetto al periodo pre-crisi, e il tasso di disoccupazione è rimasto superiore all’8%, e non lontano dal picco dell’8,8% toccato nell’ottobre 2008.

In Italia, il tasso di disoccupazione a ottobre è salito all’8,5%. Lo ha rilevato, ISTAT (l’Istituto di Statistica), aggiungendo che il tasso di disoccupazione giovanile, tra i 15 e i 24 anni, ha raggiunto il 29,2%. Si tratta di un aumento percentuale di quasi 9 punti rispetto all’inizio della crisi. Nel 2007 la disoccupazione giovanile era il 20,3%.

In una ricerca fatta in queste settimane, risulta che, oggi, quattro italiani su dieci (42%) sono molto preoccupati per il loro lavoro,  a giugno la percentuale si fermava al 27%.

Prevale la paura e il pessimismo e i più spaventati sono i giovani.  La stragrande maggioranza degli intervistati (il 96%) non pensa che la crisi stia finendo. Per il 2012, solo un italiano su cinque (il 19%) intravede una ripresa economica, mentre uno su tre vede addirittura rischi di peggioramento. E il 49% degli italiani pensa che la situazione economica del proprio nucleo familiare peggiorerà nel corso del prossimo anno, soprattutto chi nella propria famiglia ha vissuto la perdita del lavoro o situazioni di cassa integrazione (84%).

D’altronde queste preoccupazioni sono reali, l’ISTAT rileva che in Italia ci sono 2,7 milioni di persone che, pur essendo disponibili a lavorare, non cercano impiego. Un dato “triplo” rispetto a quello medio Ue, che si aggiunge ai 2,1 milioni di disoccupati (coloro che non hanno una occupazione ma la cercano attivamente).

I sottoccupati part time sono pari a 434 mila unità, l’1,7% del totale delle forze di lavoro.

Anche la percentuale dei giovani precari è sempre in costante aumento dall’inizio della crisi: 42,3% nel 2007, 43,3% nel 2008 e 44,4% nel 2009. Il balzo avanti è ancora più rilevante rispetto al dato del 1994, quando la percentuale di under 25 italiani con un impiego temporaneo era del 16,7%.
Oggi il 46,7% delle persone tra i 15 e i 24 anni che lavorano ha un impiego temporaneo.

Il salario medio in Italia nel 2010 è stato di 36.773 dollari, contro una media dell’Unione Europea di 41.100 dollari e dell’Eurozona di 44.904 dollari. Il salario medio italiano è inferiore a quello della Francia (46.365 dollari), della Germania (43.352) e della Gran Bretagna (47.645).

Proprio in questi giorni, l’ISTAT ha reso noto che è cresciuta la forbice tra retribuzioni contrattuali orarie (+ 1,7%) e livello di inflazione (+ 3,4%). Si tratta del divario più alto dal 1997.

Sempre secondo l’ISTAT, nel nostro paese, è calato il potere d’acquisto delle famiglie, la propensione al risparmio è ai minimi degli ultimi undici anni. La crisi ha lasciato il segno, ci sono meno soldi e meno possibilità di consumi: il potere d’acquisto nel secondo trimestre 2011 è sceso dello 0,2% rispetto al trimestre precedente e dello 0,3% su base annua.

Si tratta del dato più basso dal primo trimestre 2000.

Calano anche i consumi delle famiglie. Da un’indagine, emerge che c’è una stabilizzazione del tasso d’inflazione tendenziale sul valore del 3,4% raggiunto in ottobre. Gli aumenti dei prezzi registrati ad ottobre, derivanti anche dagli effetti dell’aumento dell’IVA, hanno determinato una revisione della stima per il 2011 dal 2,7% al 2,8%.

Nel contempo, aumenta il tempo dedicato alla spesa dalla maggioranza degli italiani. Infatti il 61 per cento confronta con più attenzione i prezzi ed è a caccia alle offerte  “3×2”.

Ci sono situazioni di criticità che continuano ad interessare i consumi alimentari, il 16 per cento dichiara di aver ridotto la spesa o rimandato gli acquisti alimentari.

Peggiorano notevolmente gli acquisti per abbigliamento e calzature (per i quali la spesa è stata ridotta del 51 %). I beni tecnologici hanno avuto una diminuzione del 34 %.

In termini congiunturali, il calo più significativo, ha interessato i beni ed i servizi ricreativi (solo le vacanze hanno avuto un meno 50%).

Poi ci sono gli effetti delle tanto acclamate liberalizzazioni: quasi tutti i prezzi e le tariffe sono cresciuti, alla faccia di chi sosteneva che un mercato più concorrenziale avrebbe favorito il consumatore finale. In molti settori si è passati da una situazione di monopolio pubblico a vere e proprie oligarchie controllate dai privati. Il dato più clamoroso è quello delle assicurazioni sui mezzi di trasporto (Rc auto) che dal 1994 ad oggi sono aumentate del +184,1%, contro un incremento dell’inflazione del +43,3% (in pratica le assicurazioni sono cresciute 4,2 volte in più rispetto al costo della vita).

Come se non bastasse, a settembre 2011 si è toccato il picco più alto degli ultimi 20 anni della bolletta energetica: 61,9 miliardi di euro, pari a un’incidenza del 3,91% sul Prodotto Interno Lordo. Ogni famiglia si trova quindi a pagare una bolletta energetica di 2.458 euro all’anno. L’Italia fa registrare aumenti ben superiori a quelli medi degli altri paesi europei.

Infine, per quanto riguarda il 2012, Bankitalia prevede che la pressione fiscale potrebbe attestarsi intorno al 44%, raggiungendo il suo massimo storico.

Secondo il rapporto 2011 dell’associazione di volontariato cattolico Caritas, i cittadini italiani che vivono in povertà sono 8,3 milioni, pari al 13,8% della popolazione.  Nel 2009,  erano 7,8 milioni (pari al 13,1%).

Dal 2005 al 2010, il numero di giovani che si rivolgono alle associazioni di volontariato è aumentato del 59,6%. Il 76,1% di essi, inoltre, non studia e non lavora.

Uno studio presentato lo scorso 17 novembre dice che metà delle famiglie italiane  “non riesce più a far quadrare i conti”.

Il 15% dei nuclei si trova in maggiori difficoltà e ogni mese deve intaccare i propri risparmi per sopravvivere; il 6,1% è costretto a chiedere aiuti e prestiti.

Per il presidente del Censis, Giuseppe De Rita, “la povertà è arrivata in un soggetto come la famiglia che fino a quattro-cinque anni fa era il presidio della ricchezza nazionale”.

L’associazione “Save the children” afferma che, dal 2008 ad oggi, sono le famiglie con minori ad aver pagato il prezzo più alto della recessione: negli ultimi anni la percentuale delle famiglie a basso reddito con un minore è aumentata dell’1,8%, e tre volte tanto (5,7%) quella di chi ha due o più figli.

Il prezzo più alto della crisi sembrano pagarlo infatti i minori: sono 10 milioni 229 mila i minori in Italia, di questi, uno su cinque (24,4%) è a rischio povertà, il 18,3% vive in povertà , il 18,6% in condizione di deprivazione materiale e il 6,5% (653.000 ragazzi) in condizione di povertà assoluta, privi dei beni essenziali per il conseguimento di uno standard di vita minimamente accettabile.

 

LA SINISTRA FA LA GUARDIA AL BRACIERE DELLA BCE

Storicamente ad occuparsi di questi problemi erano sempre state le forze politiche di sinistra, quelle che avevano come riferimento il movimento dei lavoratori.

In Italia gli eredi politici dell’ex partito comunista, che insieme alla sinistra ex democristiana hanno dato vita al PD (il Partito Democratico), sono saltati, invece, con entrambi i piedi, sulla barca liberista, abbandonando per strada gli ultimi avanzi della stagione keynesiana. Oggi, i dirigenti di quel partito si presentano come le guardie più fedeli al braciere della BCE e non temono accuse di collusione con i poteri forti.

Alcuni esempi sono utili per dimostrare questa “folgorazione sulla via dell’Eurotower”.

Il vicesegretario del PD, Enrico Letta, ha dichiarato: I contenuti della lettera di Draghi e Trichet rappresentano la base su cui impostare politiche per far uscire l’Italia dalla crisi… “

Il giuslavorista e senatore del PD Pietro Ichino ha detto: «Di una disciplina dei licenziamenti per motivi economici abbiamo bisogno e corrisponde a quello che la Banca Centrale Europea ci ha chiesto con la lettera del 5 agosto. Se il governo intende far riferimento a questo, sarebbe una scelta necessaria, doverosa e corrispondente a quelle richieste».

Matteo Renzi, sindaco di Firenze, capo della corrente dei “Rottamatori” del PD ha sostenuto: «Mi ritrovo nella lettera della BCE… sulle pensioni sono per estendere a tutti il sistema contributivo. Chiedere a un lavoratore di lavorare un anno o due di più per avere un asilo nido in più, credo sia equo».

Nicola Zingaretti, presidente della provincia di Roma, uno degli emergenti della nuova classe dirigente del PD, ha affidato alle pagine del giornale di destra Il Foglio le sue ricette: «le forze del centrosinistra sono apparse troppo silenti e imbarazzate, prigioniere di un rapporto con il pubblico impiego troppo viziato da conservatorismi… Per il lavoro, la flessibilità non è il diavolo e l’ideologia del posto unico non serve a niente. Soprattutto ai giovani. E’ ovvio che un giovane guadagni meno e sia meno protetto contro i rischi dell’impiego rispetto ad un lavoratore anziano».

Il timbro di qualità a queste posizioni l’ha messo Eugenio Scalfari, capo del partito/giornale La Repubblica, sostenendo che una vera politica di sinistra deve fare subito la riforma delle pensioni applicando a tutti il sistema contributivo, accettando la conseguente riduzione delle future prestazioni pensionistiche e rammaricandosi che ci siano ancora pezzi di sinistra che non abbiano capito l’importanza strategica di questo provvedimento. La Repubblica è considerato da molti il principale quotidiano della sinistra italiana, con le sue campagne è riuscito a fare le scarpe a Berlusconi. A livello economico, però, ha sposato da tempo una linea neo-liberista e filo-BCE, sostenendo le politiche economiche che stanno massacrando i popoli dell’Europa. Questo non pare scandalizzare nessuno.

Poi c’è il caso di Nichi Vendola e della sua SEL (Sinistra Ecologia e Libertà) che, per non arrendersi a un ruolo di mera testimonianza, per proseguire nel suo sforzo di far diventare riformista la sinistra radicale e di attrarre la parte maggioritaria della sinistra classica nello schema dell’alternativa di sinistra, ha deciso di rimanere anch’egli nel “recinto dei vincoli BCE”: «Non penso più al voto anticipato. Quella di SEL è un’interlocuzione attenta verso l’esecutivo. Non confido nella sventura del governo Monti».

Quel poco che è rimasto delle ex sinistre radicali è ormai escluso dalla rappresentanza, grazie a una legge elettorale trappola, ma anche per i suoi limiti di analisi e di azione politica. Per esempio, rispetto alla vicenda del governo Monti, il segretario di Rifondazione Comunista, Paolo Ferrero ha detto che bisogna creare un’opposizione di sinistra a questo governo. Bene, ma questa opposizione come si conciglia con la proposta di andare alle prossime elezioni, con le altre forze del centro-sinistra, da Bersani a Di Pietro a Vendola, per affrontare la contesa elettorale con “un fronte democratico, unica via per sconfiggere le destre e uscire sul serio dal berlusconismo”? Come si fa a stare insieme con quelli che hanno sostenuto il governo Monti?

Insomma, come si dice da noi, si rischia di parlare di niente, solo per dare un po’ d’aria alla bocca…

Se qualcuno domandasse se in Italia esiste ancora una sinistra politica, gli si potrebbe rispondere molto realisticamente che non se ne vede traccia, non lo si è visto nella inesistente opposizione parlamentare al governo Berlusconi, non lo si vede ora nell’allineamento quasi totale al governo Monti, il governo della BCE e delle banche.

Da agosto in poi si è fatta avanti con più chiarezza una nuova forma di autoritarismo. Le linee di politica economica che vengono imposte all’Italia e sono state imposte alla Grecia, al Portogallo, alla Spagna non hanno come obiettivo il risanamento dei conti pubblici, ma hanno lo scopo di sancire il primato del potere economico-finanziario su quello politico (dal controllo sociale politico-mediatico al controllo disciplinare della finanza). Il governo Monti è la rappresentazione politica di questo golpe finanziario. Chi non contrasta con forza questo processo, chi porta legna al braciere della BCE, sta dall’altra parte, contro l’interesse dei lavoratori, dei precari e dei disoccupati.

Alla fine degli anni ’70, le variegate forme del conflitto sociale avevano fatto dell’Italia e dell’Europa la parte del mondo con meno squilibrio fra ricchi e poveri, il prodotto lordo si ripartiva per quasi tre quarti al lavoro e per un quarto a profitti e rendite. Nel 2000 la quota dei salari scese di dieci punti, al 65%, e da allora è sempre discesa. Oggi, nella distribuzione del reddito il 10% più ricco della popolazione possiede una ricchezza 11,6 volte superiore al 10% più povero. E’ un divario in costante allargamento che che stacca l’Italia da tutti gli altri paesi europei. La diseguaglianza colpisce soprattutto chi è giovane: infatti chi è sotto i 30 anni  guadagna il 35% in meno di chi ha tra i 31 e i 60 anni. Le classi medie si sono impoverite e sono aumentate le aree di povertà assoluta.

Il problema, però, non si risolve come chiede la BCE, tagliando gli stipendi e le pensioni, con una maggiore tassazione dei redditi bassi e medi, riducendo il sostegno ai non abbienti e prendendo a fucilate il welfare. Nè tantomeno raccontando la favola per gli allocchi della crescita. Di quale crescita parlano? Quella che vorrebbe rilanciare la produzione di SUV, lavatrici e navi da guerra? Quella delle grandi opere come l’Alta Velocità o il Ponte dello Stretto di Messina? Quella che vorrebbe un’espansione urbana incontrollata e la militarizzazione del territorio per imporre alle popolazione qualche grande opera devastante? Quella propinata da tre dei maggiori gruppi industriali (Fiat, Finmeccanica e Fincantieri) impegnati a «recuperare» produttività con licenziamenti, chiusure di stabilimenti e ritmi di lavoro insostenibili per gli operai che rimangono? O forse la crescita è quella adottata dalle maggiori catene distributive che stanno distruggendo l’agricoltura acquistando i prodotti nei posti più disparati della terra, a prezzi che neanche il lavoro nero e schiavistico praticato dai produttori italiani riesce ad essere concorrenziale.

 

I MOVIMENTI SOCIALI LA SOLA RISORSA

L’intera rappresentanza politica italiana pensa che non ci sia alternativa al “pensiero finanziario unico” della BCE e dell’FMI e che sia necessario sottostare alla “fiducia dei mercati”, pertanto la sola risorsa politica, sociale e morale sono i movimenti dei lavoratori, dei precari, degli studenti, dei ricercatori, dei giovani e delle donne che hanno riferimenti ed estensione su scala mondiale, sfiorando persino il santuario americano di Wall Street. Sono i promotori dei referendum per l’acqua e i beni comuni, i contrari al nucleare, le popolazioni come quelle della Valsusa, gli ecologisti che si battono per le piccole opere di manutenzione del territorio e per il risanamento idrogeologicio del paese. Sono i lavoratori della cultura come quelli del Teatro Valle di Roma.

Per fortuna, in Italia, a ridare una speranza di cambiamento c’è stata la straordinaria protesta degli studenti nel dicembre 2010 che ha bloccato autostrade e stazioni e che ha tentato l’assalto ai palazzi del potere il 14 dicembre a Roma. Questa massa critica ha prodotto con continuità momenti di lotta, fino ad arrivare alla giornata mondiale di lotta studentesca del 17 novembre con oltre 150.000 tra ragazze e ragazzi scesi in piazza in 70 città italiane.

Gli operai, dati per scomparsi, si sono fatti sentire a centinaia di migliaia con la FIOM a Roma, il 16 ottobre 2010.

Sono state le tute blu della FIAT a dimostrare che si poteva resistere al piano di supersfruttamento di Marchionne… Così come hanno fatto gli operai della Fincantieri bloccando strade e stazioni contro la chiusura dei cantieri navali.

E poi c’è stato lo straordinario risultato dei referendum: i 27 milioni di sì del 12 e 13 giugno.

La radicalità del movimento per l’acqua pubblica si è scontrata con la costruzione di un’Unione Europea che è stata modellata come spazio monetario con l’unico scopo del consolidamento dei dogmi liberisti. La battaglia per la riappropriazione sociale dell’acqua e dei beni comuni contrasta con il patto di stabilità esterno ed interno, perché è esattamente attraverso questo strumento che si impedisce un ruolo del pubblico nell’economia e si costringono gli enti locali al drastico restringimento delle loro funzioni, fino al loro smantellamento definitivo.

In questo autunno, dalle nebbie della situazione presente, è emerso anche un nuovo concetto: il diritto all’insolvenza.

Qualcosa di simile l’aveva già detta Karl Marx nel 1850, quando sosteneva: “Se i democratici proporranno che si regolino i debiti dello stato, i proletari proclameranno che lo stato faccia bancarotta”. 

I giovani insolventi che a Bologna hanno dato vita al movimento di Santa Insolvenza forse questo non lo sapevano. Infatti, hanno deciso di farsi proteggere da una santa che è il nuovo simbolo della rabbia precaria e che non vuole pagare il debito prodotto da banchieri, finanzieri, capitalisti e ultra-liberisti vari.

Santa Insolvenza è stata anche a Roma il 15 ottobre, alla testa dello spezzone indipendente dello “Sciopero Precario”. La sua presenza è stato un segnale che ha accomunato le condizioni materiali di tante vite schiacciate dal peso della precarietà e dalla mancanza di prospettive. Ma il movimento, in quella giornata, straordinaria per la partecipazione di 300 mila persone, per via degli episodi che sono avvenuti durante il corteo, ha dimostrato come sia difficile, quasi impossibile, incanalare la rabbia che, sempre di più, contraddistingue le giovani generazioni. Una rabbia cresciuta in questi anni di fronte allo spettacolo indegno della politica e della finanza contro il quale si sono infrante, inascoltate e represse, le prese di parola di intere generazioni.

Santa Insolvenza è tornata alla testa di un corteo, a Bologna, l’11 novembre, nella giornata mondiale di “Occupy” e, in quel contesto, è riuscita a realizzare un grande miracolo: uomini e donne in carne ed ossa, insieme a lei, hanno liberato uno spazio fisico, una “piazza coperta”, per costruire una comunità in grado di produrre risposte concrete alla crisi. Dentro all’ex cinema Arcobaleno, un grande contenitore chiuso da anni, situato in pieno centro città, è stato aperto un “Community Center”.  Lì avrebbero dovuto accavallarsi tutte le traiettorie di resistenza alla crisi: dalla tutela contro lo strozzinaggio di Equitalia e delle banche all’autoriduzione delle bollette, dalla battaglia per la difesa dei beni comuni all’autorganizzazione di servizi e di spazi culturali.

Quando dicono “non ci rappresenta nessuno”, gli insolventi intendono affermare che non solo rifiutano di affidarsi a partiti, a organizzazioni sindacali, a istituzioni ormai superate, ma rifiutano anche la logica di collettivi e gruppi che si pongono nei confronti del movimento con intenti egemonici.

Nel 1° comunicato del Community Center di Santa Insolvenza il discorso è stato chiaro: “Non saranno le istituzioni a portare avanti le nostre lotte. Le istituzioni, i partiti, sono parte integrante di questa crisi. I movimenti e le lotte che stanno nascendo sono irrappresentabili. La rappresentanza non ha risposte da dare agli indignad@s spagnoli, agli occupanti di Zuccotti Park, alle persone che assalgono il parlamento in Grecia e nemmeno a noi. Che ci sia o no Berlusconi al potere, noi sappiamo che chiunque verrà dopo non farà altro che seguire gli ordini della Banca Centrale Europea e del Fondo Monetario Internazionale. E saranno ordini che prevederanno sacrifici, lacrime e sangue. Non si esce dalla crisi passando dal governo del bagaglino al governo delle banche”.

Dopo qualche giorno il Comunity Center è stato sgomberato, ma Santa Insolvenza è diventata famosa oltre i confini cittadini. Infatti, è  apparsa più volte in cortei studenteschi in altre regioni italiane.  A Bologna, invece, le sue apparizioni e i suoi miracoli stanno avvenendo sempre più spesso, sia per denunciare lo smantellamento e la privatizzazione dei servizi, sia per benedire le autoriduzioni dei costi dei trasporti pubblici e delle bollette dell’acqua.

Come tutto questo sia lontano da quello che esprime la rappresentanza politica istituzionale è evidente, la novità importante è che, dopo molto tempo, a prendere la parola è chi sta pagando le conseguenze della crisi.

Qualcuno sostiene che questo movimento che non vuole pagare il debito non indica una via alternativa per uscire dalla crisi; non spiega come attuare la redistribuzione del reddito, la progressività delle imposte, la “patrimoniale”, la tassazione effettiva delle transazioni finanziarie; non dice come tagliare le spese militari e le grandi e inutili opere.

Ci sono forse altri in giro che lo stanno spiegando meglio?

Gli insolventi partono dalla loro condizione materiale e cercano di prendersi il reddito che non gli viene dato, praticando tutti i percorsi possibili di lotta alla precarietà.

Anche a loro è capitato di leggere quell’articolo di The Observer in cui si sostiene che Il guaio non è la vera e propria crisi del capitalismo, ma la mancanza di una alternativa di sistema. Cioè, la mancanza di una soggettività politica che abbia il coraggio civile e intellettuale di prospettare un sistema di valori etici e di regole sociali all’altezza della odierna crisi di civiltà e capace di evitarci di pagare le conseguenze del collasso”.

Però gli insolventi hanno parecchi dubbi sulla soluzione che uno dei padri storici del pensiero operaista italiano, Mario Tronti, ha proposto sulla sua rivista: Essere dei senza partito per chi vuole fare una politica combattente, forte, efficace, che cambia, che conquista, è una maledizione. Liberarsi da questa maledizione è il compito da passare alle più giovani generazioni. Le strade sono due, parallele e complementari: ripulire la memoria e riarmare la prospettiva. La politica è entrata in crisi quando si è destrutturata, con un’operazione, consapevole da destra e inconsapevole da sinistra, la sua forma organizzata. Storicamente, questa forma era il partito. Si può arrivare a pensare che questa parola sia ormai irrimediabilmente senza forma. Ma resta il problema: la politica non si autorganizza, la politica deve essere organizzata”.

Agli insolventi e alle insolventi forse piace di più quello che Noam Chomsky ha detto il 22 ottobre agli attivisti di Occupy Boston: “Gli avamposti di Occupy stanno creando una comunità solida, una base su cui costruire le organizzazioni indispensabili per superare le sfide del futuro e le reazioni del potere. Il movimento non ha precedenti perché viviamo in un’era senza precedenti. Oggi invece c’è un forte senso di impotenza, quasi di disperazione. È una situazione nuova. Oggi gli operai del settore manifatturiero osservano la disoccupazione crescere e si rendono conto che se le scelte politiche resteranno le stesse potrebbe non esserci nessuna ripresa dell’occupazione. I non ricchi, invece, hanno cominciato a essere chiamati “precariato”, espressione usata per definire tutte le persone che vivono una vita precaria alla periferia della società. Ma quella periferia è cresciuta fino a diventare una parte importante della popolazione, negli Stati Uniti e altrove. E così oggi ci ritroviamo con l’1% della popolazione che detiene la ricchezza e con un precariato che riempie il restante 99%. Il movimento Occupy è la prima reazione popolare di massa in grado di cambiare le dinamiche attuali. Dunque è necessario coinvolgere tutti e aiutare la gente a capire cos’è il movimento. Bisogna che tutti sappiano cosa possono fare per cambiare le cose e quali sono le conseguenze del non far nulla. Abbiamo tutti bisogno di capire e di fare esperienza, prima di formulare nuove idee o migliorare quelle degli altri. L’aspetto più bello del movimento Occupy è la costruzione di legami tra le persone. Se questi legami saranno rafforzati, Occupy potrà davvero riportare la società moderna su un cammino più umano”.

 

LA SOLIDARIETA’ SOCIALE

“Aiutare la gente e capire cos’è il movimento…”, queste parole di Chomsky rimandano al problema della solidarietà, che è sempre stato cruciale in ogni processo di lotta e di cambiamento, ma lo è tanto di più oggi, dopo che anni di precarizzazione del lavoro e di competizione hanno distrutto il tessuto stesso della solidarietà sociale. La solidarietà è difficile da costruire ora, ma è necessario confrontarsi concretamente con gli effetti dirompenti di una crisi economica e produttiva senza precedenti nell’ultimo mezzo secolo. Un obiettivo diretto che bisogna porsi è quello di attenuare gli effetti sociali di questa crisi, pensando a progetti che siano in grado di stabilire (o ristabilire) relazioni di solidarietà che rafforzino i legami sociali ormai a rischio di grave deperimento.

Prima questione, il sostegno alle varie forme del conflitto sociale.

Vanno istituite Casse di resistenza in appoggio alle lotte dei lavoratori contro la crisi, i licenziamenti e la precarietà. La Cassa di resistenza è una forma di “concretezza solidale”, è uno dei diversi strumenti di lotta che si possono avere a disposizione: può servire per pagare le spese della lotta (la logistica per i presidi e manifestazioni, i materiali per la comunicazione), gli eventuali costi legali, ma anche aiutare economicamente o con l’acquisto di beni di prima necessità chi è costretto a lunghi periodi di sciopero o di inattività lavorativa.

Bisogna incoraggiare la costituzione di gruppi di auto mutuo aiuto. Persone unite da un obiettivo o da percorsi comuni possono condividere le loro esperienze, cercando di aiutarsi nell’affrontare i problemi, sperimentando momenti di solidarietà e di relazione.

I gruppi di auto mutuo aiuto dovrebbero rivolgersi a quelle persone che faticano a mantenere livelli di vita dignitosi e di piena inclusione. Sono le fasce dove la precarietà lavorativa si tramuta in precarietà esistenziale, quelle a cui i soggetti storici del welfare non riescono a dare risposte. Si tratta di una nuova domanda sociale che esplicita soprattutto un “bisogno di relazione”, come, per esempio, i cassaintegrati e i lavoratori in mobilità.

Bisogna lavorare alla costruzione di reti di protezione a favore dei soggetti e degli strati sociali più fragili, offrendo loro il necessario sostegno pratico e richiedendo come controprestazioni la partecipazione alla fornitura di beni “non di mercato” volti a soddisfare quelle esigenze collettive che rischiano di essere marginalizzate dalla crisi. Si tratta, in altre parole, di introdurre meccanismi non caritatevoli di redistribuzione del reddito che, compensando i processi ridistributivi “spontanei”, attivino la responsabilità sociale dei beneficiari in un’ottica di mutualismo dal basso.

La costruzione di reti sociali si sperimenta con proposte concrete: dai fondi di solidarietà alle banche del tempo, dalle mense sociali ai gruppi d’acquisto di beni primari.

Storicamente la mutualità si è concretizzata fra soggetti uguali (operai, contadini, artigiani, ecc.), ma oggi i bisogni non sono più settorializzabili e la flessibilità lavorativa sposta continuamente i gruppi sociali di appartenenza. Per questo il passo da fare è quello di mutualizzare i bisogni. Il benessere delle persone va perseguito anche in termini relazionali sociali e opportunità di partecipazione.

Vanno aperti o riattivati spazi di resistenza, di solidarietà e di muto soccorso. Luoghi contrapposti alle tante forme di relazione sociale fondate sull’esclusione e ispirati a principi orizzontali e reticolari, non gerarchici e produttivistici, ma disposti a sperimentare continuamente i loro modelli organizzativi e di convivenza. In Italia non si parte da zero, si può attingere e prendere spunto dal meglio dell’esperienza dei centri sociali autogestiti.

La centralità in questi spazi la devono avere le relazioni tra i soggetti che socializzano i propri bisogni, i propri saperi e le diverse culture.

Gli obiettivi della loro azione stanno nel dare senso alle forme della vita metropolitana, solitamente emarginanti: dalle produzioni culturali e artistiche d’avanguardia, realizzabili e fruibili all’interno di percorsi extra-mercato, ai networking e alle aggregazioni informali che vogliono sperimentare percorsi di innovazione attraverso nuovi linguaggi e nuove tecnologie, al tentativo di cambiare lo sguardo sul mondo, agendo sui comportamenti quotidiani, cercando di creare nuove modalità di relazione tra le persone al di fuori degli ordini consolidati che il mercato cristallizza per il suo interesse.

Bisogna favorire lo sviluppo e la sperimentazione di un’economia solidale, ancora allo stato nascente. Va aperta la discussione verso nuovi immaginari collettivi, smontando il sistema di relazioni sociali, nella consapevolezza che consumare in modo critico richiede uno sforzo soggettivo importante che deve essere costruito in un luogo comunitario, dove sia possibile una “economia di relazione” che si sostituisce all’acquisto.

Per raggiungere tutto questo ci vorrebbe un miracolo?… Può darsi… ma adesso una santa che lo può fare l’abbiamo anche noi: è Santa Insolvenza.

Voglio concludere questo intervento in un modo forse non conforme, ma la preghiera che adesso andrò a declamare è una specie di mantra benefico che gli insolventi bolognesi hanno recitato in varie situazioni di massa e, in tutte le volte che l’hanno fatto il miracolo è sempre arrivato.

Santa Insolvenza,

protettrice delle precarie e dei precari,

dacci oggi il nostro reddito quotidiano

e allontana da noi i nostri debiti

perché non siamo noi i veri debitori

Santa Insolvenza,

piena di rabbia, 

frega per noi peccatori

la ricchezza che noi produciamo 

ma che altri detengono…

 

perché abbiamo diritto alla casa,

perché abbiamo diritto alla mobilità, 

perché abbiamo diritto ai saperi,

perché abbiamo diritto al desiderio.

 

Santa Insolvenza,

che sei nei nostri pensieri,

sia generalizzato il tuo nome

e venga lo sciopero precario.

Non privarci della tentazione

ma liberaci dalla banca e dall’ufficiale giudiziario…