Attualità

“Il regime del salario”, un ebook sugli effetti del Jobs act

Il libro, curato dal collettivo Lavoro insubordinato, è uscito ieri. Ne pubblichiamo l’introduzione e la prefazione firmata da Ferruccio Gambino.

05 Settembre 2015 - 12:37

Prefazione

salQuesta premessa intende rilevare alcuni effetti della politica del lavoro nell’Eurozona (19 paesi nel 2015) e in particolare in Italia, in considerazione del processo di mercificazione del lavoro vivo in corso. Seguono poi undici articoli che esaminano in modo circostanziato aspetti cruciali del regime del salario e delle sue tendenze in Italia. Questa premessa vuole limitarsi a offrire qualche coordinata per rammentare che il fenomeno di frammentazione della forza-lavoro è in realtà una serie di tentativi che procedono da tempo e che vanno di pari passo con più aggressivi esperimenti in altri continenti e in particolare nell’Asia orientale. Dunque, nell’Eurozona vanno sostenute quelle forze che si oppongono ai disegni dell’odierno capitale industriale e dei servizi e che sono motivate a non cedere terreno.

Le politiche adottate negli scorsi 35 anni nell’UE hanno mirato e mirano a deteriorare i salari e di conseguenza le condizioni di lavoro. L’onda lunga della casualizzazione del lavoro salariato si era sollevata già alla fine degli anni 1970 negli Stati Uniti con la politica antinflazionistica di Paul Volcker alla guida della Federal Reserve (agosto 1979) e il conseguente aumento della disoccupazione oltre il 10% nel 1981. L’onda è ben lontana dal placarsi. Di solito, l’abbassamento dei livelli di occupazione prepara l’attacco alla busta-paga. Nell’Eurozona la crisi dell’occupazione ha comportato una continua pressione sulla massa salariale che poi si è aggravata con il rafforzamento dell’euro rispetto al dollaro. Nell’ultimo quadriennio (2008-2011) degli otto anni di direzione di Jean-Claude Trichet alla Banca centrale europea (BCE) il numero dei disoccupati è schizzato nell’Eurozona, fino a raggiungere la cifra da primato di 19 milioni nel 2012 (più dell’11% delle forze di lavoro), poco dopo l’uscita di scena del banchiere francese; né si vedono segni di significativa flessione del fenomeno nello scorso triennio.

Molti commentatori sono del parere che la BCE sia stata mal consigliata dalla Bundesbank e che abbia commesso «errori» madornali di gestione. A loro dire, il principale errore sarebbe consistito nel rafforzamento dell’euro nei confronti del dollaro a causa di una cieca adesione della Bundesbank al dogma della lotta all’inflazione. Tuttavia può darsi che il dogma della lotta all’inflazione abbia un peso non superiore al doveroso aiuto congiunturale offerto dall’UE al sofferente capitale statunitense. Una delle forme più importanti di tale aiuto è consistita nel rafforzamento dell’euro rispetto al dollaro e nella conseguente grave crisi delle esportazioni di alcuni paesi dell’Eurozona, in particolare di quelli dell’Europa meridionale. Qui basta rammentare che nella fase di massima onda sismica del sistema finanziario statunitense (tra l’aprile e il luglio del 2008) il dollaro veniva scambiato a più di 1,50 contro l’euro, nel tripudio dei telegiornali e dei gazzettieri euro-continentali che inneggiavano all’«Europa forte» e alla «locomotiva Germania». In altri termini, l’euro forte costituiva un forte balzello prelevato sul monte-salari dell’Eurozona e, al tempo stesso, una dose di ossigeno per le grandi banche e assicurazioni dopo la crisi scatenata dai crolli bancari negli Usa. Al brusco prelievo dall’Eurozona in nome dell’atlantismo si aggiungeva la beffa della grande stampa finanziaria anglosassone, secondo la quale occorreva mettere in riga non le grandi istituzioni finanziarie salvate con la socializzazione internazionale delle loro perdite, bensì i salari dell’Europa meridionale. Inoltre, gli investimenti diretti all’estero dei capitali industriali dell’Eurozona ci mettevano del loro nella decurtazione del monte-salari, approdando in gran numero – e mai in ordine sparso – nell’Asia orientale e nell’Europa orientale.

Si può constatare che in primo luogo la lotta all’inflazione porta regolarmente acqua al mulino dei detentori dei capitali e delle rendite e che a parità di altre condizioni si avvale di misure che generalmente intaccano l’occupazione, in particolare quando alla capacità di mobilitazione in difesa delle condizioni di vita e di lavoro si contrappongono tutte le leve del potere statale e mediatico, mentre quello che resta di larga parte delle organizzazioni sindacali generalmente si accoda. In secondo luogo, le misure che contrastano l’inflazione finiscono poi per comprimere i salari, in particolare i salari bassi e precari. Persino il salario minimo orario è destinato a significare ben poco per chi lavora in modo intermittente.

Nel regolare l’occupazione e i salari nell’Europa continentale eccelleva il Partito socialdemocratico tedesco. Con la sua cosiddetta Agenda 2010 il primo governo (1998-2002) del socialdemocratico Schröder (cancelliere dal 1998 al 2005) compiva un duro lavoro: tagli alla previdenza sociale, ossia al sistema sanitario, all’assegno di disoccupazione, alle pensioni, irrigidimento delle regole nei confronti di quanti cercano lavoro: salari passabili nei settori ad alta produttività, pochi euro all’ora per gli altri, in parte stranieri e straniere e in parte pure tedeschi e tedesche. Anche se il Partito socialdemocratico ha pagato tale operazione con le sconfitte elettorali a partire dal 2005, di fatto l’erculeo Schröder ha acquisito benemerenze imperiture presso i partiti conservatori di Germania ai quali, una volta arrivati al governo, è poi rimasto il più facile compito di passare con lo strofinaccio sul «mercato del lavoro». A Schröder il padronato internazionale ha poi mostrato la sua gratitudine perdonando in men che non si dica i giri di valzer con Putin e i lauti proventi lucrati grazie all’operazione Northstream, che porta il gas dalla Russia alla Germania attraverso il mare del Nord, evitando la Polonia.

In realtà i socialdemocratici tedeschi hanno fatto scuola, dimostrando agli altri governi delle più svariate gradazioni nell’Eurozona, compresi i governi italiani, che la compressione salariale è possibile a condizione di procedere con cautela e di cominciare a operare i tagli dagli strati più deboli. Questa è vecchia e sordida politica europea. Quando nel 1931 Pierre Laval, allora primo ministro francese (e futuro primo ministro filonazista del regime di Vichy), andava dicendo che la Grande Depressione non toccava la Francia sottintendeva che, con il benevolo concorso dei poteri pubblici e privati, la crisi stava già ricadendo sulle spalle degli immigrati e di quei francesi che non disponevano di strumenti politici per contrastare il deterioramento sociale. Oggi non c’è più il Laval del 1931 ma ci sono i disoccupatori e i precarizzatori dell’Eurozona su commissariamento di Bruxelles. In breve, pare che sia diventato decente che quanti siedono al comando nell’Eurozona si mostrino affranti dalla disoccupazione e dalla precarizzazione, molto meno affranti dai profughi.

La cifra cruciale di questa «preoccupazione» ha un nome e si chiama NAWRU (Non-Accelerating Wage Rate of Unemployment), il tasso di disoccupazione (e precarizzazione) tale da non generare pressioni salariali. Questo potere di contenimento delle cosiddette spinte inflative attraverso la disoccupazione e la precarizzazione è in realtà l’imbrigliamento dei salari, con il loro spostamento progressivo nell’area del lavoro precario. Annualmente la Commissione europea appioppa a ogni Paese un suo NAWRU, ossia un tasso di disoccupazione tale da non generare aumenti salariali: per il 2015 il NAWRU ha varcato la soglia del 10% per l’Italia, è salito al 25% per la Spagna, all’11% per la Francia ed è sceso al 5% per la Germania. Al fine di assicurare una certa tranquillità ai poteri finanziari, la Commissione fissa il NAWRU sempre più in alto per i Paesi «a rischio», arrogandosi un potere predittivo che nessuna istituzione le ha concesso. Nell’ovattato, generale riserbo sull’argomento spicca il ritegno della BCE, un’elegante autocensura nei confronti dei massimi sostenitori del NAWRU che si annidano tra le aquile del cancellierato e della Bundesbank.

Fin dagli anni 1990 la struttura di potere in Italia ha cercato con alterne vicende di seguire la ricetta praticata prima da Reagan e Thatcher e poi applicata più prudentemente dai socialdemocratici tedeschi. Il ritmo di applicazione della ricetta è venuto accelerando negli anni recenti. In realtà, le grandi manovre italiane erano cominciate già nel 1992, erano proseguite sia con il piano di riduzione delle pensioni attraverso la conversione del sistema retributivo nel sistema contributivo (governo Dini, 1995) sia con una prima prova sul mercato del lavoro (governo Prodi, 1996). Sulla scia del governo Schröder, in Italia le grandi manovre avevano ripreso vigore con la vittoria della destra al governo (governo Berlusconi, 2001-2006). La destra si era esposta nel 2002 decidendo di aggredire lo Statuto dei lavoratori e in particolare di abrogare l’articolo 18 che vietava il licenziamento senza giusta causa. Seguivano gli inevitabili sorrisi dei socialdemocratici tedeschi che sanno fare più cautamente e meglio. Le manifestazioni di milioni di oppositori in tutta Italia nel marzo 2002 mettevano in quarantena l’attacco frontale all’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, ma non mettevano fine alle macchinazioni revansciste del padronato. In altri termini, la strategia della famosa «cauta prudenza» che l’Uomo di Arcore aveva adottato per sventare i controlli contro l’evasione fiscale del suo elettorato (primo governo Berlusconi, 1994-95) non valeva nei confronti dello Statuto dei lavoratori. La sconfitta del 2002 è risultata bruciante ma non definitiva. Prima sono stati rimessi insieme i cocci e poi sono stati chiamati a raccolta i poteri economici, politici e mediatici, i quali nell’arco di una dozzina d’anni hanno ridotto l’articolo 18 a un guscio vuoto fino alla sua abolizione (2014).

Lo stillicidio di misure e ancor più di pratiche quotidiane contro la forza-lavoro ha deteriorato non soltanto le condizioni ma anche i rapporti di lavoro tra compagni/e di lavoro, desocializzando ambienti dove in precedenza la solidarietà aveva a lungo prevalso, nonostante il clima di crisi. Inoltre, la frustrazione che ne è seguita si è ritorta ulteriormente contro il sindacato, dissolvendo diffusamente i legami che si erano già indeboliti fin dagli anni 1980, ossia da quando il sindacato aveva cercato di pilotare a favore dei suoi fedelissimi le liste degli ammessi e degli esclusi dalla cassaintegrazione. La posta in gioco diventava dunque il monopolio delle decisioni riguardanti le maestranze. Il datore di lavoro andava riprendendosi il diritto assoluto di assumere e licenziare. La parentesi della più che quarantennale limitazione all’arbitrio del licenziamento grazie all’articolo 18 volgeva al termine, cancellata dalla insindacabilità del licenziamento. Esclusa così di fatto la magistratura da gran parte delle decisioni in materia, rimane la monetizzazione del licenziamento a mezzo di una semplice indennità pecuniaria. Per un’azienda in Italia un normale licenziamento può essere trattato poco più che come una questione di voucher.

Domandiamoci: qual è il modello verso il quale il capitale odierno, in Europa come altrove, intende avviarsi? Semplificando, il modello è quello del lavoro migrante: in breve, scarsi diritti civili, precarietà lavorativa e abitativa, difficoltà e addirittura impossibilità di trasmettere la vita per chi percepisce i salari da lavoro migrante. L’esercizio di quel che resta dei diritti politici e sindacali è messo in naftalina, la perdita del posto di lavoro è deciso su di un pezzo di carta padronale, e – contrariamente a gran parte della schiavitù moderna – il diritto di trasmettere la vita è rimandato a tempi migliori – e di fatto negato ai molti che hanno perso la speranza di ottenere un salario adeguato a mantenere la prole.

Oggi in Italia i grandi mezzi di comunicazione nazionali gongolano per la previsione della produzione di 650mila auto all’anno. Pochi notano che le nascite sono scese ben al di sotto di tale cifra: 509mila nel 2014, la più bassa natalità dall’unità d’Italia. Il saldo naturale della popolazione del 2014 è negativo (meno 100mila unità), cifra del biennio di guerra 1917-18. Si tratta di una tendenza internazionale che trova il suo centro in Cina e nel suo regime di fabbrica-dormitorio ma che va estendendosi per varie cause – tra cui le forme della precarietà del lavoro e dei regimi lavorativi – in molti paesi industrializzati e in via d’industrializzazione. Al fondo della compressione della forza-lavoro e della sua precarietà è in gioco il diritto alla generatività, il diritto alla vita e alla trasmissione della vita.

Ferruccio Gambino

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Un rapporto di dominio. Sindacato, reddito, insubordinazione nel regime del salario

Lavoro Insubordinato è un collettivo di uomini e donne sull’orlo dell’occupabilità che hanno cominciato a discutere dell’organizzazione politica del lavoro precario in un momento in cui parlare di sciopero era un po’ come evocare un santo. Tra il 2012 e il 2013 l’esperienza degli Stati Generali della Precarietà, a cui abbiamo preso parte, ci aveva lasciato contemporaneamente il senso di una possibilità, un orizzonte politico sul quale investire e una considerevole dose di realismo. Da buoni atei abbiamo perciò cominciato a interrogarci a partire dai limiti, dagli ostacoli, dalle domande che le esperienze pregresse avevano aperto.

La prima considerazione è stata quella della difficoltà oggettiva di organizzare i precari e, anche per questa ragione, l’idea di uno sportello tecnico di supporto alle vertenze, nella sua innegabile utilità, ci sembrava lasciare aperto il problema della comunicazione politica, ovvero di processi organizzativi capaci di assumere una forma espansiva andando al di là della singola vertenza. Poi si è profilato all’orizzonte il Jobs Act. Lo abbiamo subito interpretato come il tentativo di accelerare e portare a compimento i processi di precarizzazione in atto da tempo. Il Jobs Act non ha inventato la precarietà, ma punta decisamente a darle una forma compiutamente neoliberale. Non si tratta più di colpire dove è possibile, di permettere alle imprese pubbliche e private di fare profitti sull’abbassamento costante del costo del lavoro grazie alla compressione dei salari. Si tratta di costringere il lavoro dentro a un sistema di vincoli che lo rendono sempre disponibile al prezzo più basso e con le minime garanzie normative. La vera innovazione del Jobs Act è il suo essere dichiaratamente elemento di un sistema che vuole produrre una costante disponibilità al lavoro, un sistema del quale fanno parte anche la riforma della pubblica amministrazione e della scuola, la revisione della spesa sanitaria e la tanto annunciata nuova politica fiscale.

Siamo perciò partiti da noi, sapendo che quanto stava avvenendo in Italia assumeva il suo reale significato nel quadro europeo e globale. Sapevamo anche che, proprio perché la precarietà è ormai la forma generale di tutto il lavoro, rendendo fatiscente ogni distinzione tra lavoro garantito e non garantito, il lavoro nel suo complesso è diventato una zona grigia per l’iniziativa politica, scomodo per i sindacati, scivoloso per i movimenti. Con il suo linguaggio trendy e la retorica della semplificazione, il Jobs Act si presenta invece esplicitamente come un discorso sul lavoro sebbene punti a stabilizzarne la crisi. Con la precarizzazione del contratto a tempo indeterminato si dice ai lavoratori e a chi cerca, suo malgrado, di diventarlo, che il salario se lo devono conquistare continuamente. La retorica della ripresa dalla crisi nasconde nient’altro che un aumento del tasso di sfruttamento e del ricatto. Il primo passo, perciò, è stato partire da un’analisi di quanto accadeva con questa riforma del lavoro, cercare cioè di capire in che direzione andavano le sue trasformazioni. L’obiettivo non era solo informare o fare cronaca, né offrire soluzioni immediate di cui – ahinoi – non disponiamo, ma ragionare sui cambiamenti in corso nell’ottica di creare le condizioni per organizzarsi, individuare la controparte, fornire strategie utili per districarsi nella nuova situazione che si stava determinando.

Questa serie di articoli, pubblicati sul sito connessioniprecarie.org da aprile 2014 a luglio 2015, è nata perciò con lo scopo di comprendere e analizzare gli effetti politici e materiali del Jobs Act e le tendenze di lungo periodo alla base della riforma del mercato del lavoro in Italia. Nel cuore della crisi, o meglio della sua normalizzazione e delle politiche di austerità, il lavoro diviene sempre più informale, nel senso che perde ogni forma prestabilita, effetto di una contrattazione più o meno allargata. Le principali innovazioni apportate dal Jobs Act e dai suoi decreti attuativi appaiono inoltre come il naturale epilogo di un lungo processo transnazionale che punta tutto proprio su questa produzione di un lavoro informale.

Analizzando gli effetti di questa legge ci siamo resi conto che quello che si stava cercando di imporre era una ridefinizione complessiva dei rapporti di potere dentro e fuori i luoghi di lavoro. Abbiamo definito «regime del salario» questo rapporto di dominio dentro e contro il quale ci troviamo oggi a vivere. Il governo del capitale pretende che al suo interno la dipendenza dal salario sia assoluta, nonostante e spesso attraverso forme di compensazione come il reddito. Questo è possibile innanzitutto attraverso l’isolamento dei singoli lavoratori: la sconnessione definitiva del nesso sociale diritti/lavoro produce una segmentazione che si estende dentro e fuori i luoghi di lavoro. Il regime del salario è l’estensione del comando capitalistico anche al di là del rapporto di lavoro salariato in essere. Esso impedisce qualsiasi definizione omogenea e unitaria del lavoro salariato perché si impone attraverso la moltiplicazione delle forme contrattuali, le trasformazioni dei servizi e la monetizzazione del welfare. Il regime del salario non è un ritorno al passato capitalistico della mera coazione al lavoro, ma un rapporto di dominio più complesso nel quale il salario si scompone in forme e figure diverse della produzione sociale. Si tratta di un regime complesso proprio perché una moltitudine di figure che entrano ed escono dal rapporto di lavoro sono comunque dipendenti dal salario per la propria riproduzione. Esso dimostra che la mediazione del salario non è solamente un residuo fordista e nemmeno, come recita il desiderio del capitale, un intensivo e nascosto sfruttamento possibile solo nelle sterminate fabbriche asiatiche. Il regime del salario punta a imporre una disponibilità costante a essere occupati e questa è una condizione che in Italia milioni di lavoratori conoscono, da Melfi alle regioni metropolitane del Nordovest, dalle fabbriche verdi del meridione alle fabbriche piccole e grandi del Nordest.

In questa costante disponibilità just in time e just in space il lavoratore o l’occupabile – come si definisce oggi chi quotidianamente combatte per conquistare un salario – è costretto a pensare la propria riproduzione nei termini di un problema esclusivamente individuale. Come osserva Ferruccio Gambino nella Prefazione, arriva a essere messo in questione persino il «diritto alla generatività», ovvero alla possibilità di pensare oltre la mera sopravvivenza quotidiana. Nel regime del salario non è necessario che il denaro dato in cambio di lavoro garantisca la riproduzione di chi lavora, anzi. Il salario che – se va bene – entra nelle tasche del lavoratore, serve piuttosto come arma di ricatto: per ottenerlo, devi essere sempre flessibile e pronto a ogni esigenza ed esercitare il tuo appeal esibendo le tue innumerevoli competenze, sbandierando la tua «auto-imprenditorialità» e provvedendo costantemente alla tua formazione, alla tua previdenza e anche alla tua mobilità. Praticamente devi fare tutto tu.

Il regime del salario, perciò, ha molte facce: è precarizzazione, voucherizzazione, decontribuzione. Esso riguarda anche le condizioni meno visibili della precarizzazione: lo smantellamento e la finanziarizzazione del welfare, l’iperspecializzazione e la privatizzazione della formazione, l’imposizione della conciliazione al ribasso di famiglia e lavoro. A ciascuno di questi aspetti sono dedicati gli articoli raccolti in questo opuscolo. Mentre l’istrione del governo rivendica il rilancio dell’occupazione come tangibile risultato del Jobs Act, è chiaro che sul lungo periodo questa riforma rilancia soltanto il profitto dei padroni. Dove l’atipico diventa tipico, il contratto a tutele crescenti è una curiosa forma di lotta contro il tempo già vinta in partenza dalle aziende e l’unico aumento salariale possibile è ottenuto facendo confluire un TFR ipertassato in busta paga per ricavare più entrate fiscali. L’ulteriore liberalizzazione dei licenziamenti va a braccetto con la riforma della NASpI, un peculiare sussidio di disoccupazione, pensato anche per i lavoratori già abituati a saltare da un lavoro all’altro o da un tirocinio all’altro, che ben si adatta alle esigenze di aziende che non possono perder tempo dietro alle pretese dei lavoratori. Il rilancio dei voucher, così utili per le aziende – per così dire – «incerte» sulle assunzioni, il cui tetto massimo sale fino a 7000 euro, fa di uno strumento nominalmente nato per combattere il lavoro nero in determinati settori il mezzo privilegiato a disposizione delle aziende per liberarsi di qualunque responsabilità nei confronti dei lavoratori. Questi dovranno, loro sì, offrire delle certezze ai padroni, anzitutto garantendo la più completa disponibilità al lavoro in ogni sua forma, in ogni suo luogo, e rispondendo con prontezza alla chiamata dell’azienda di turno. In piena contraddizione con la natura stessa del rapporto che nasce, in teoria, come occasionale, il prezzo da pagare sarebbe la facile perdita del posto in quanto le aziende dispongono di un largo bacino di lavoratori. La scelta è quanto mai semplice: totale disponibilità o completa sostituibilità. Un divide et impera che agisce al cuore dei rapporti di lavoro e rende facile la gestione di quei lavoratori che sono più soggetti alle regole dell’occupabilità dettata dalla scarsità e dalla temporaneità del lavoro. Queste ultime cessano così di essere gli effetti congiunturali del cosiddetto mercato del lavoro per diventare sue caratteristiche strutturali. Dietro a questa trasformazione c’è appunto quella che abbiamo chiamato la normalizzazione della crisi, ovvero la consapevolezza acquisita dal governo del capitale che quelli che si erano presentati come suoi effetti transitori sono invece molto utili per ottenere il massimo di sfruttamento della forza lavoro.

Il regime del salario consegna all’incertezza la classe operaia e investe tanto il lavoro che nasce precario quanto il lavoro una volta chiamato garantito. Non si tratta però, è bene specificarlo, di dire che la precarietà è un fenomeno del tutto inedito, caduto dal cielo della crisi, o che il Jobs Act e le riforme che lo hanno preceduto hanno aggredito e deteriorato un mondo del lavoro pieno di garanzie e di sindacati eroici improvvisamente detronizzati. Oggi la classe operaia non sta in paradiso, ma non ci stava neanche ieri. La fine della contrattazione collettiva, l’attitudine settoriale o settaria dei sindacati, la perdita di potere delle lavoratrici e dei lavoratori sono processi di lungo periodo che hanno il loro specifico peso nella trasformazione in atto.

Il regime del salario crea le condizioni per una costante estorsione di obbedienza che impone un ripensamento dell’organizzazione e della comunicazione politica necessarie per mettere in pratica nuove strategie di insubordinazione collettiva. In questi anni, precarie e precari non sono rimasti a guardare a testa bassa: anche dove il comando è più violento si è sedimentata un’accumulazione di conoscenze, di esperienze e di comunicazione politica precaria. In questo senso, le lotte dei migranti e delle migranti offrono un bagaglio di esperienza imprescindibile. I migranti e le migranti hanno messo in atto strategie efficaci per rivendicare potere nelle fabbriche della logistica e di fronte alle questure, cercando di aggredire simultaneamente il loro quotidiano sfruttamento e le sue condizioni politiche – in Italia, il razzismo istituzionale della legge Bossi-Fini – e indicando al contempo la prospettiva necessariamente transnazionale dell’insubordinazione. Anche queste lotte si sono tuttavia scontrate con la frammentazione e con le gerarchie che attraversano i luoghi di lavoro, mentre la solidarietà, che pure occasionalmente si è manifestata, non è stata in grado di innescare processi di politicizzazione espansivi. Sono questi i limiti che hanno incontrato le esperienze di lotta degli ultimi anni, caratterizzate da una forte frammentazione che limita il potenziale politico delle loro iniziative. Proprio questi limiti – l’isolamento e l’individualizzazione dei lavoratori che la precarizzazione generalizzata ha prodotto e che il Jobs Act ha normalizzato – sono non a caso l’ostacolo con cui si è scontrata la nostra ambizione di costruire uno sportello politico per i precari.

A queste difficoltà una parte del movimento, coinvolta nel percorso dello sciopero sociale, sta cercando di dare una risposta. Si tratta della sfida di «organizzare l’inorganizzabile», sapendo che, se ormai la precarietà è la forma generalizzata di tutto il lavoro, non si tratta di organizzare chi non è rappresentato sindacalmente o chi non ha un rapporto continuativo di lavoro. La sfida che abbiamo di fronte investe la moltitudine di figure che dipendono da un lavoro sempre più informale. Nuovi discorsi politici hanno cercato di aggredire la svalorizzazione politica del lavoro come la richiesta di un salario minimo europeo, di un reddito e di un welfare incondizionati, di un permesso di soggiorno minimo europeo di due anni, il mutualismo, il sindacalismo sociale. Si tratta di strumenti pratici oltre che di discorsi che stanno cercando di affrontare il problema dell’accumulazione di potere in un contesto in cui le singole vertenze locali, le singole lotte e mobilitazioni, non riescono a innescare processi di lungo periodo e di lunga gittata, né riescono da sole a produrre una comunicazione politica precaria.

La serie di articoli raccolti in questo opuscolo risponde precisamente a questa esigenza. Abbiamo cercato di offrire una conoscenza utile a chi abita la jungla contrattuale e simbolica del lavoro informale, perché sappiamo che per innescare processi di organizzazione collettiva e per rompere l’isolamento a cui tutti sembriamo inesorabilmente condannati è necessario prima di tutto spezzare il ricatto che grava su ciascuno. Tra questa accumulazione di conoscenza e un’accumulazione effettiva di forza c’è una differenza sostanziale, ma i processi collettivi di organizzazione, la possibilità di insubordinazione e di sabotaggio del regime del salario, non possono prescindere da questo sapere. Qualsiasi forma di lotta che si occupi di riorganizzare una difesa sindacale al passo coi tempi o di supplire a un sistema di welfare evanescente, infatti, deve oggi necessariamente fare i conti con il comando esercitato dal regime del salario. Noi sappiamo che non è desiderabile, e probabilmente nemmeno possibile, opporsi al lavoro informale restaurando le precedenti forme contrattuali certe e obbligatorie. Sono stati le operaie, i precari e i migranti che per primi le hanno messe in discussione. Si tratta di conquistare spazi individuali e collettivi di libertà che i contratti semplicemente non possono garantire, anche se possono essere utili per assicurare posizioni. Deve essere chiaro che lo squilibrio di potere che attualmente caratterizza il regime del salario non può essere neutralizzato dalla concessione di un reddito di base che – come dimostrano le recenti sperimentazioni regionali e proposte governative – rischia se mai di alimentarlo. Noi condividiamo pienamente la richiesta politica di un reddito incondizionato, ma pensiamo che essa debba funzionare dentro al regime del salario e non al suo esterno ignorando le condizioni che esso costantemente pone.

Separare i due tempi significa pensare che un momento assolutamente individuale come il godimento di un reddito possa meccanicamente rovesciarsi in un’azione collettiva come la contestazione del regime del salario. Se, come il suo riconoscimento in diversi paesi europei e ormai anche in qualche regione italiana dimostra, il reddito può essere una parte integrante del regime del salario, la sua rivendicazione deve porsi chiaramente contro quel regime. Non esiste un ipotetico dopo in cui, grazie a un’accumulazione contingente di forze, sarà possibile restaurare meccanismi di contrattazione o di conflitto interno ai luoghi di lavoro. Il legame tra reddito e salario – come tra il regime del salario e il governo della mobilità, ovvero l’insieme di politiche orientate a mettere a valore per il profitto i movimenti del lavoro vivo attraverso e all’interno dei confini europei – richiede un ragionamento che parta dagli effetti reciproci e quindi dalla complessità del quadro. L’espropriazione sociale che avviene sul terreno dei diritti, delle forme di organizzazione, dei bisogni è prodotta e riprodotta dal rapporto di dominio che si esprime tramite il salario e viceversa. È dunque impossibile e in parte controproducente pensare un termine senza l’altro. La rivendicazione politica di un reddito incondizionato deve mirare ad agire puntualmente contro questa espropriazione, deve diventare parte delle lotte sui luoghi di lavoro, deve agire direttamente contro il regime del salario, non può essere una misura politico-amministrativa concessa per ottenere ulteriore occupabilità.

Lo stesso vale per le forme di sindacalizzazione che possono essere costruite dentro e contro il regime del salario. Se lo sciopero è sociale nel momento in cui registra l’impossibile distinzione tra garantiti e non garantiti, tra operai, precari e migranti, nel momento in cui assume che le lotte del lavoro riproduttivo sono lotte contro la produzione di questa società, allora il sindacalismo sarà sociale solo se saprà congiungere tutti questi momenti, se sarà in grado di aggredire teoricamente e praticamente il regime del salario in ogni sua manifestazione. Non è più possibile accettare politicamente una differenziazione degli ambiti lavorativi per poi appaltarli a tipi diversi di sindacalizzazione. La necessaria unificazione simbolica delle lotte che deve essere opposta alla attuale frammentazione deve aggredire il rapporto complessivo di dominio che il regime del salario ci pone davanti agli occhi. Abbiamo la responsabilità di riconnettere ciò che il regime del salario quotidianamente e sapientemente divide, il lavoratore e la sua condizione sociale, ripoliticizzando questo rapporto, riorganizzando il conflitto fuori dall’arena pacificata in cui è stato assorbito.

Oggi la sfida forse più urgente è quella di guardare con brutale onestà a queste trasformazioni a partire dai problemi che la dimensione globale del regime del salario, e il suo rapporto funzionale con il governo della mobilità, pone. Pur essendo il Jobs Act l’oggetto di analisi e di critica di questi articoli, sappiamo che le trasformazioni che abbiamo davanti hanno una portata globale, e di questa portata deve essere la nostra risposta organizzativa. Rovesciare il regime del salario non è e non può essere allora un problema locale ma deve essere la sfida che uno sciopero sociale transnazionale può raccogliere. È con questo orizzonte che abbiamo scritto le analisi che seguono, con l’obiettivo di chiarire il fine nascosto e la cornice complessiva delle riforme sul lavoro, fornendo indicazioni politiche contro l’obbedienza che questo regime impone.

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