Attualità

Il patto di competitività franco-tedesco

Disoccupazione di massa e abolizione dell’indicizzazione dei salari: è l’attacco più mostruoso, su scala continentale, alle condizioni di vita dei lavoratori mai effettuato nel corso della storia moderna.

03 Febbraio 2011 - 21:24

Venerdì 4 febbraio 2011, Angela Merkel e Nicolas Sarkozy presenteranno, al vertice UE di Bruxelles, una proposta “shock” per la creazione di un Patto di competitività destinato a dare operatività al governo economico dell’Unione. Il testo rappresenta, nella sua attuazione, il programma politico del semestre europeo, da prendere come riferimento per gli stati della zona euro.
I punti “qualificanti” del documento sono:

1) I sistemi di indicizzazione dei salari vanno aboliti;
2) I programmi della formazione devono essere realizzati per favorire la mobilità del lavoro;
3) I sistemi di tassazione sulle società e sulle persone fisiche vanno armonizzati;
4) Le prestazioni previdenziali vanno collegate al reale andamento demografico, innalzando ove necessario l’età pensionabile;
5) Nelle Costituzioni nazionali va introdotto un limite al deficit per frenare l’indebitamento;
6) Va costituito un regime nazionale per la risoluzione delle crisi bancarie.

Al vertice di venerdì si discuterà quindi dell’ampliamento del fondo salva-Stati, ma anche della riforma del Patto di stabilità integrata dalla nuova chicca del patto di competitività.
Riassunto: o fate quello che diciamo noi o vi facciamo mangiare vivi dalla speculazione.
In poche parole, se passa questa linea, i singoli Stati, il prossimo anno, costruiranno la loro politica economica nazionale sotto dettatura del capitalismo finanziario di Parigi e di Berlino.
Nella bozza, infatti, si sottolinea come l’attuazione di questi sei punti sarà verificata regolarmente da un direttorio composto da ministri dell’economia.
Di fatto, i parlamenti nazionali sono esautorati nello loro funzioni di indirizzo politico. Questo, del resto, non è una novità, fa parte degli impegni presi nell’ambito di quel “semestre europeo”, auspicato da Prodi e da Tremonti, concepito dai socialdemocratici-liberisti e dai popolari, per armonizzare le politiche anticrisi, e votato con il paluso di BCE e FMI.
Nella nota si legge che, dopo dodici mesi dall’entrata in vigore del Patto, sarà la Commissione Ue a redarre un rapporto, in cui si valuterà la situazione Paese per Paese, con l’impegno di «istituire un meccanismo di sanzioni» per gli Stati membri inadempienti. Nel testo del Patto si evidenzia, poi, come il piano per la competitività, insieme alla costituzione dello European stability mechanism (il Fondo anticrisi permanente), «riusciranno a garantire la stabilità della moneta unica e dell’intera zona euro».
In questo modo, il semestre europeo e l’entrata in vigore del patto di stabilità confermano che i governi saranno ostaggio del direttorio, a guida Franco-Tedesca (cioè sotto l’egida della Bundesbank) ed i paesi periferici, quelli che rischiano il default, dovranno solo dire “signorsì”.
Francia e Germania hanno deciso di presentare il conto della crisi a tutti gli altri paesi. Barattano il loro appoggio al “fondo salva stati” con questo “pacchetto dell’austerity”. I tempi di avvio di questo percorso sono: a marzo il voto, a settembre scatta la fase operativa. Salvo imprevisti, il vertice del 4 febbraio sarà propedeutico al prossimo appuntamento tra i leader fissato per fine marzo.
L’iniziativa franco tedesca non è piaciuta al presidente della Commissione Ue, Josè Manuel Barroso, che si è accorto che, con questo schema, a contare non sarà l’Europa, ma la Germania e la Francia, che sono determinate ad andare avanti senza prendere troppo in considerazione la cosiddetta “Europa politica”.
La logica della Germania è semplice: la Merkel vuole avere una contropartita politica al rafforzamento del fondo salva-Stati che le crea un certo imbarazzo sul fronte della politica interna.
I tedeschi hanno inserito nella loro costituzione il vincolo deficit pil e mal digeriscono di dover salvare gli stati in difficoltà.
Pochi giorni fa ad esempio è apparso un durissimo articolo nel quale si accusava l’Italia di fare politiche lassiste in economia e di bloccare il nuovo patto di stabilità.
Con questa nuova proposta la Germania metterebbe il cappio al collo a tutte le economie dei paesi periferici intervenendo di fatto sulle finanziarie.
Dal canto suo, la ministra delle finanze francese, Christine Lagarde, a Davos, si è completamente allineata sulle posizioni del governo tedesco. Infatti, ha affermato che la decisione presa da Berlino e Parigi, nel 2005, di allentare i vincoli del patto di stabilità, varati a Dublino nel 1996, era errata ed ha contribuito al marasma del debito pubblico nei paesi della zona dell’euro. La ministra ha promesso che l’errore non verrà ripetuto, impegnandosi ad attuare il rigore fiscale per l’insieme dell’Unione europea.
C’è un aspetto che però pochi hanno notato. Al contrario degli attacchi di Berlino contro gli eccessi nella spesa pubblica di altri paesi dell’eurozona, tra il 2008 ed il 2010, la Germania ha esibito uno dei maggiori aumenti del deficit pubblico nell’ambito della Ue. In quei due anni, lo Stato tedesco, non ha tirato la cinghia per due ragioni: per il forte aumento della disoccupazione e per le spese dei lavoratori coperti dal “kurzarbeit” (mettere i dipendenti in esubero a orario ridotto, col governo che copre la differenza rispetto al salario contrattuale), ma anche per salvare il sistema bancario, in particolare la banche pubbliche dei singoli stati della Repubblica Federale Tedesca, le landesbanken.
Berlino poi si è convinta che era possibile aggirare la crisi europea contando sulla proiezione dell’export tedesco a livello extra-europeo: infatti c’è stata una forte ripresa delle esportazioni tedesche, a partire degli ultimi mesi del 2009.
Dopo di che, la Germania è diventata fautrice di una rinnovata austerità fiscale nella zona dell’euro, seppure in casa sua si comporti diversamente.
Il momento per far passare la sua posizione sul rigore fiscale europeo è stato quando si è costituito il fondo di salvataggio per Grecia. E’ allora che si è capito che la contropartita richiesta dalla Merkel ai francesi era l’accettazione della proposta tedesca.
Tutto questo implica che la nuova forma di cogestione franco-tedesca della zona dell’euro si baserà solo sulla difesa degli interessi bancari francesi e tedeschi.
Mentre i paesi pieni di debiti dovranno accollarsene tutto il peso.
Per l’Italia e il Belgio non resta che una corsa al ribasso: ridurre il deficit per impedire l’aumento dello spread sui titoli e svendere il patrimonio nazionale per abbattere il debito.
Grecia, Portogallo, Irlanda e Spagna invece affonderanno, con una disoccupazione effettiva di oltre un quarto della popolazione.

In queste pagine lo abbiamo scritto più di una volta: non esiste una neutralità della crisi. Diceva una vecchia canzone di Gianfranco Manfredi: “la crisi è strutturale, è nata col capitale, sta dentro il meccanismo di accumulazione, il riformismo non è una soluzione…”.
Mai parole furono più profetiche. Questa crisi, partita nel 2008, prima finanziaria, poi economica e produttiva è stata causata dai padroni e sono i padroni che, ora, la vogliono utilizzare per ricostruire nuove gerarchie in Europa. Gerarchie tra stati, rapporto di subordinanzione tra zone ricche e povere, nuove forme di comando in fabbrica dettate dal modello Marchinne.
L’attacco è cosi pesante che non ci sono possibilità di negoziazione. Per questo è penoso il silenzio/assenso delle morenti forze socialdemocratiche/liberiste, per non parlare delle grandi centrali sindacali europeee.
Se vogliamo essere “uniti contro la crisi”, lo dobbiamo essere soprattutto contro i padroni e il modello sociale che vogliono imporre.
Un modello sociale in cui i governi di tutte le risme diventeranno i principali primari dei mandatari franco-tedeschi di Bruxelles.