Attualità

Grecia / Cronache da Lesbos, due anni dopo l’accordo Ue-Turchia

Riceviamo da un lettore e pubblichiamo: dopo la firma del bilaterale che ha chiuso la balkan route, “l’isola intera è divenuta essa stessa un enorme centro di detenzione”.

19 Marzo 2018 - 14:02

di Arroz

18 marzo 2016. L’Ue firma un vergognoso accordo con Erdogan per chiudere il confine turco-greco a chi cerca di entrare in Europa.

13 marzo 2018, quasi due anni dopo. A Moria, nell’hotspot di Lesbos, isola greca al largo della Turchia, un ragazzo siriano di diciannove anni si arrampica su un pilone dell’alta tensione per protestare contro l’assurdo rifiuto della sua richiesta di asilo, che lo separa dalla sua famiglia e lo obbliga a rimanere nell’isola, prigione a cielo aperto. Cade a terra per elettroshock, è vivo in difficili condizioni in ospedale. É il secondo tentativo di suicidio o disperata protesta nel giro di due giorni. Nel campo di Moria scoppiano le proteste, la polizia le soffoca con fiumi di gas lacrimogeno e manganelli. Solo una settimana prima era stata repressa con altrettanta violenza la sollevazione di quindici persone che avevano ricevuto il diniego della propria richiesta e si rifiutavano di attendere tranquillamente la propria deportazione in Turchia.

Dalle coste di Lesbos si vede la Turchia, sembra di poterla toccare. A separare le coste turche dall’europa” sono poche miglia, quasi impossibile attraversarle senza essere intercettati al largo o a riva: le barche che approdano nell’isola vengono accolte da Frontex e polizia e le persone a bordo sono condott* a Moria, il vero e proprio hotspot, dove chi ha attraversato il confine viene identificat*, registrat* e eventualmente detenut*. Dopo l’accordo del marzo 2016, chiunque arrivi a Lesbos dalla Turchia per entrare in Europa deve fare richiesta d’asilo, unica alternativa per evitare il ritorno coatto in Turchia. Alcun* vengono detenut* direttamente all’arrivo, sulla base della nazionalità e di null’altro, e sono costretti a iniziare la procedura di asilo direttamente dal centro di detenzione del campo. “Welcome to prison” c’è scritto, nel muro che circonda l’intero hotspot, assieme al recinto di rete e filo spinato.

É come se ci fossero varie prigioni che si sovrappongono. La prima è il centro di detenzione vero e proprio, all’interno del campo, dove nell’attesa di essere rilasciati o deportati si vive ammassati in otto in un container: due ore al giorno per uscirne e camminare, un’ora al giorno per usare i cellulari, spesso senza visite di amici e parenti.
La seconda prigione, che contiene la prima, è l’hotspot di Moria, dove sono costrette a vivere migliaia di persone (a fronte di una capacità ricettiva ben inferiore) attendendo una risposta alla richiesta di asilo o sperando nella remota possibilità di venire trasferiti nella mainland. Le giornate passano lente e sempre uguali, nelle interminabili file per il cibo – poco e sempre lo stesso – per l’accesso all’acqua che esce dai rubinetti due o tre ore al giorno, per una visita medica o per un avvocato. Il tempo di chi è bloccato alle porte dell’Europa, si sa, non vale niente. É difficile descrivere le condizioni degradanti e disumane del campo, dove in inverno con la pioggia il fango si riversa nelle tende congelate, dove a riempire il tempo è l’attesa, il tentativo di rimediare cibo, di sfuggire ai controlli della polizia.

Prigione è anche l’isola intera, divenuta essa stessa un enorme centro di detenzione dopo la firma dell’accordo UE-Turchia, grazie al quale le isole greche al confine con la Turchia (Lesbos, Chios, Samos, Leros e Kos) sono divenute una zona di frontiera difficilissima da lasciarsi alle spalle per entrare in Europa, una sorta di limbo-prigione. Chi attraversa il confine e entra a Lesbos è soggett* a una particolare procedura d’asilo, che innanzitutto valuta la possibilità di venire riammess* in Turchia, considerata “paese terzo sicuro”. Si tratta di deportazioni vere e proprie: i/le migranti ricondott* con la forza in Turchia, tranne se di nazionalità siriana, vanno incontro ad un anno di prigione nelle terribili carceri turche, con confisca dei telefoni e di ogni altro contatto col mondo esterno. Un anno, un infinito tempo di privazione della liberà, violenza e brutalità avvallata dalle crudeli politiche migratorie dell’unione europea.

La deportazione in Turchia può avvenire anche dopo il diniego della propria richiesta di asilo, a meno che non si accetti la generosa offerta del “ritorno volontario assistito” offerto dall’Organizzazione internazionale della migrazione. Si tratta a tutti gli effetti di una deportazione mascherata che prevede arresto immediato appena si firma l’accordo per ritornare “volontariamente”, seguito da un’indefinita permanenza nel centro di detenzione di Moria, dal successivo trasferimento sulla terraferma e dalla deportazione nel paese d’origine. I ritorni volontari sono molto più numerosi delle riammissioni in Turchia, quasi diecimila negli ultimi 18 mesi. Non si capisce cos’abbia di volontario un ritorno che spesso viene imposto di fronte alla minaccia della deportazione in Turchia o all’inesistenza di alternative possibili.

Nonostante gli assurdi dispositivi messi in campo dal governo europeo delle frontiere, non è possibile controllare né bloccare completamente il movimento di chi sfida i confini. Tra le migliaia di persone intrappolate a Lesbos, molte hanno già ricevuto il diniego, ma ci si ingegna inventando ogni volta nuovi modi per evitare i continui controlli della polizia, la detenzione, la deportazione e per cercare di uscire, di attraversare quella che è una frontiera già interna all’Europa. L’isola è molto difficile da lasciare: i/le migranti, durante l’iter di richiesta di asilo, sono sogget* a “geographical restrictions”, limitazioni della libertà di movimento. Si incontrano persone che sono bloccate in quel fazzoletto di terra anche da quasi due anni. A meno di non essere riconosciut* come “soggetti vulnerabili”, l’unico modo per lasciare Lesbos è aspettare lunghissimi mesi sperando in una risposta positiva alla richiesta di asilo – che spesso invece verrà rifiutata, oppure “fare Ali Baba” come si dice a Moria: trovare uno smuggler che sia abbastanza abile o un container abbastanza nascosto, e avere tanta fortuna. C’è chi prova tre, cinque, dieci volte, spendendo tutti i soldi risparmiati o raccolti dalla famiglia, consumandosi nella disperazione e rabbia di non esser riusciti ancora una volta a ri-attraversare la frontiera e uscire dall’isola.

A volte, per uscire serve protestare: a novembre i partecipanti a uno sciopero della fame nella piazza centrale di Mitilini, capitale dell’isola, a cui è seguita l’occupazione di un edificio di Syriza, hanno ottenuto il trasferimento sulla terraferma. Altre volte, chi si ribella viene deportato in Turchia. Altre ancora, si va direttamente a processo: 37 richiedenti asilo sono detenuti in diverse prigioni greche in seguito a proteste scoppiate a Moria nel luglio 2017, con l’accusa di aver appiccato fuochi nel campo, a causa di un ennesimo raid arbitrario della polizia nel campo. I/le migranti incontrati a Lesbos parlano della difficoltà di organizzarsi e resistere: il funzionamento stesso dell’hotspot e la politica di esclusione e detenzione creano ed esasperano divisioni tra diversi gruppi che sono costretti a condividere pochissimo spazio vitale in condizioni insopportabili. Oltre a ciò, la polizia reprime duramente manifestazioni e proteste, sia fisicamente – con manganelli e gas lacrimogeno- sia con grandi retate, a cui spesso seguono deportazioni immediate.

Ma le proteste non si fermano. Tra oggi e domani in tutta la Grecia e in vari paesi europei si moltiplicheranno le manifestazioni per chiedere la cancellazione dell’infame accordo Ue – Turchia, e di tutti gli altri accordi bilaterali firmati dall’Ue nel tentativo di fermare chi attraversa i confini.

Open the islands, open the border, stop deportation!