Attualità

Foggia / In corteo contro lo sfruttamento nei campi

Appuntamento venerdì 4 settembre’015. “Parlano tanto di schiavi e caporali ma nulla viene fatto per disinnescare i meccanismi generali” alla base del sistema. Pubblichiamo inoltre due approfondimenti dai blog di ∫connessioni precarie e Campagne in lotta.

02 Settembre 2015 - 16:59

Appello alla mobilitazione 

Corteo cittadino venerdì 4 settembre, ore 15, via Manfredonia – piazzale antistante il cimitero di Foggia

Migranti raccolgono pomodori nelle campagne di Foggia (foto di Antonello Mangano, 31 agosto 2013)Nelle ultime settimane media e politici hanno tanto speculato sulla situazione del lavoro bracciantile, richiamando alla legalità come strumento di prevenzione dello sfruttamento veicolato dai caporali. In realtà, l’approvazione del decreto “Campo Libero” contiene in sé la negazione di tali intenti. La creazione della “Rete del lavoro agricolo di qualità” infatti prevede l’esenzione sostanziale dai controlli per le aziende che non hanno subito sanzioni in precedenza e che aderiscono alla rete, di fatto proteggendo le grandi imprese che controllano la filiera. Il capitale che si produce attraverso lo sfruttamento selvaggio viene ancora una volta salvaguardato dalle leggi dello stato, mentre il problema strutturale è mascherato accanendosi soltanto sul caporalato.   lo sfruttamento in agricoltura: da una parte le politiche migratorie che creano marginalità e ricattabilità e dall’altra una filiera agroalimentare controllata dalle multinazionali della Grande Distribuzione Organizzata che schiacciano produttori, trasportatori e lavoratori. Non ci sono ancora soluzioni reali per il rispetto dei minimi contrattuali che già prevedono ad esempio la gratuità del trasporto, la paga oraria, il diritto alla disoccupazione. Nulla si dice sulle difficoltà, per i lavoratori e le lavoratrici migranti, di ottenere documenti e residenza, fatto che li rende completamente ricattabili e alla mercé dei padroni. Come ci insegna la lotta dei facchini, questi non sono per noi i punti di arrivo ma punti di partenza per ribaltare i rapporti di forza, cominciando dall’esigere un minimo di garanzie per chi, oggi, si spacca la schiena per 3,50 euro a cassone.

L’esperienza insegna: le istituzioni, complici delle aziende e della grande distribuzione, non concederanno mai nulla spontaneamente, neppure il rispetto delle leggi. Per questo bisogna mobilitarsi, portare avanti un’azione collettiva di tutti i lavoratori e tutte le lavoratrici, per sbattere in faccia a chi fa profitti sullo sfruttamento che nessun pomodoro può essere raccolto senza le nostre braccia. Il corteo di venerdì vuole essere un momento concreto in cui esigere:

Permesso di soggiorno per tutti i lavoratori e le lavoratrici.
Residenza per tutti i lavoratori e tutte le lavoratrici.
Rispetto dei minimi contrattuali previsti dal contratto provinciale.
Fornitura di servizi per i lavoratori e le lavoratrici: casa, acqua e trasporto gratuiti dall’abitazione al posto di lavoro.

La responsabilità è di chi trae profitto da questo sistema di sfruttamento: i commercianti all’ingrosso e al dettaglio e le industrie agroalimentari favorite dalle istituzioni. E’ da loro che pretendiamo risposte. Per questo il 4 settembre saremo in piazza, uniti senza distinzione di nazionalità, per dire no allo sfruttamento e al razzismo che divide la classe lavoratrice.

LIBERIAMOCI DALLO SFRUTTAMENTO!

Rete campagne in lotta – comitato dei lavoratori delle campagne

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Oltre gli schiavi e i caporali: Riflessioni sullo sfruttamento nella filiera agro-industriale

(da Campagne in lotta)

Nelle ultime settimane, il tema delle condizioni lavorative dei e delle braccianti (migranti e italiani-e) ha ricevuto particolare attenzione mediatica e politica. La morte di numerosi lavoratori e lavoratrici nelle campagne, dalla Puglia al Piemonte, ha portato nuovamente alla ribalta situazioni note in realtà da decenni: lo sfruttamento estremo della manodopera agricola stagionale non è certo una novità, ma si caratterizza invece come un elemento strutturale del sistema di produzione agro-industriale italiano (e più in generale globale).

Quando giornalisti, sindacalisti e politici affrontano questo argomento, in maniera del tutto superficiale e spesso senza reale conoscenza della questione, denunciano forme di schiavitù e di caporalato. Posto in questi termini, il discorso ritrae il lavoro stagionale nelle campagne come se fosse il frutto di un “ritardo storico”, un frammento arcaico che non ha nulla a che vedere con la modernità circostante. Il lavoro bracciantile, caratterizzato da precarietà assoluta, ricattabilità estrema e iper-sfruttamento, è invece perfettamente contemporaneo: esso rappresenta appieno, in forma esasperata, il funzionamento del mercato del lavoro neoliberista, in cui una manodopera just-in-time viene ingaggiata senza badare a tutele, vincoli o regole. Peraltro è l’apparato istituzionale stesso a promuovere la deregolamentazione del mercato del lavoro e della produzione, attraverso strumenti come la legge Fornero o il Jobs Act, per citare soltanto le disposizioni più recenti, passando per decreti come quello di “Campo Libero”, specifico per il settore agricolo. Il ministro per le Politiche Agricole, Maurizio Martina, insieme al Ministro del Lavoro Giuliano Poletti e a tutti i partecipanti al vertice nazionale sul caporalato tenutosi lo scorso 27 agosto, rivendicano come soluzione questo decreto, quando in realtà esso costituirà un nuovo ostacolo ad un reale cambiamento. I partecipanti al vertice, infatti, promuovono attraverso il decreto in questione la “Rete del lavoro agricolo di qualità”, che prevede l’esenzione dai controlli per le aziende aderenti – unico requisito quello di non avere subito sanzioni in precedenza. Campo Libero davvero, ma allo sfruttamento selvaggio e autorizzato.

Nell’ottica di questo neo-liberismo galoppante, parlare di schiavitù come fanno molti è fuorviante: la manodopera impiegata nella produzione agro-industriale è salariata e non schiava. Il bracciante non è proprietà di chi lo sfrutta, come avverrebbe nel caso della schiavitù, bensì affitta a questi la sua forza-lavoro. Tale distinzione non è questione meramente linguistica o formale. Il proprietario di uno schiavo, avendo ‘investito’ del denaro nell’acquisto di forza-lavoro, ha interesse a che quel particolare soggetto, di sua proprietà, sopravviva e quindi frutti il più possibile. D’altro canto, quando un datore di lavoro ingaggia manodopera a giornata ha a disposizione un bacino in continua crescita di forza-lavoro iper-precaria ed ultra-ricattabile, da cui può attingere a piacimento. Questa enorme disponibilità di manodopera è conseguenza della crisi economica, delle politiche migratorie e di allargamento dell’Unione Europea, così come dell’impoverimento di interi continenti da parte dei grandi capitali e dei loro sostenitori politici, impoverimento che passa anche attraverso le guerre più o meno ‘umanitarie’. Ragion per cui, cinicamente, morto un bracciante se ne ingaggia un altro.

La campagna mediatico-politica in corso tende, inoltre, a ridurre la responsabilità dello sfruttamento dei e delle braccianti al solo caporalato. Questo viene presentato come l’elemento che distorce un sistema altrimenti sano, occultando un fatto tanto banale quanto scomodo: il caporalato è un anello della catena di sfruttamento del settore agro-industriale, che parte dalla grande distribuzione organizzata passando per le industrie di trasformazione e i commercianti, i quali di solito hanno il controllo delle organizzazioni dei produttori. Per chi trae realmente profitto dalla filiera agro-alimentare, il caporale è funzionale al reclutamento e al controllo dei lavoratori e delle lavoratrici, né più né meno di quanto lo siano forme legali di intermediazione di manodopera, quali possono essere le agenzie interinali o le cooperative, che operano in agricoltura come in tutti i settori. Criminalizzare il caporale, bersaglio mediatico perfetto (soprattutto se straniero), rappresenta un comodo espediente adottato trasversalmente anche da quelle forze, come i sindacati confederali, che nominalmente difendono gli interessi di lavoratrici e lavoratori. Il dito puntato da giornalisti e politici contro i caporali segue la stessa logica che mette all’indice gli scafisti: gli uni e gli altri vengono denunciati come la causa prima di tante morti. In questo modo, si nascondono le responsabilità istituzionali e di chi si arricchisce grazie al “servizio” che queste figure prestano. È colpa degli scafisti se i e le migranti muoiono in mare, non certo delle politiche imperialiste europee che impoveriscono i paesi del Sud e che privano di qualsiasi legittimità e diritto chi tenta di raggiungere le coste del continente. È colpa dei caporali se i e le braccianti ricevono paghe da fame per turni di lavoro massacranti, vivendo in abitazioni fatiscenti senza acqua né luce, non certo dei padroni delle aziende agricole, delle industrie di trasformazione e della grande distribuzione organizzata (GDO) che fanno profitti sul loro sfruttamento.

Non a caso, i rappresentanti della trasformazione e distribuzione su larga scala in questi giorni hanno avuto gioco facile nel declinare qualsiasi responsabilità per le morti sul lavoro, protestando il fatto che agiscono in piena legalità e per il mantenimento di prezzi bassi al consumo, quando in realtà realizzano profitti in continua crescita a dispetto della crisi. Secondo l’Anicav (Associazione Nazionale Industriali Conserve Alimentari Vegetali), nel 2014 il giro d’affari della conserva di pomodoro è cresciuto del 3,6 per cento e si è attestato a 1,5 miliardi di euro. Sempre per quanto riguarda il pomodoro, emblematico è il caso di Princes, colosso multinazionale dell’agroalimentare che in provincia di Foggia trasforma la metà di tutta la produzione di pomodoro di Capitanata, con una lavorazione di circa 300.000 tonnellate di pomodoro fresco l’anno. L’azienda specula sul peso dei cassoni di pomodoro obbligando i trasportatori (spesso ingaggiati da cooperative o agenzie interinali, o in alcuni casi direttamente dipendenti di Princes stessa) a tempi di attesa per lo scarico superiori alle 24 ore, in modo che il pomodoro marcisca e perda di peso, cosicché si abbassi il prezzo che la trasformazione paga ai produttori. I trasportatori, pagati 40 euro a viaggio, sono i primi a subire i sotterfugi di Princes, ai quali nelle ultime settimane hanno reagito con blocchi e proteste.

È ovvio che di questo gioco risentono gli anelli più deboli della filiera, a partire proprio dai braccianti che raccolgono i cassoni di pomodoro. In un documento di qualche giorno fa, abbiamo riportato la voce di alcuni lavoratori migranti, i quali denunciavano la morte di un bracciante maliano che risiedeva nell’ormai celebre Grand Ghetto alle porte di Foggia. A prescindere dalla fondatezza della notizia, e al di là del clamore mediatico, bisogna dire chiaramente e con forza che il lavoro nei campi di pomodoro uccide – per il troppo sforzo, per le paghe misere e il sistema del cottimo, per l’assenza di garanzie minime, per l’esposizione ad agenti chimici o per aver ingerito acqua non potabile. Uccide all’improvviso o lentamente, in maniera silenziosa, giorno dopo giorno, logorando i corpi di chi si spezza la schiena sotto il sole per 10-12 ore al giorno.

Gli enormi profitti delle multinazionali del cibo si reggono sulla miseria, la precarietà e la ricattabilità dei lavoratori e delle lavoratrici. Ma denunciare questo sistema non basta. Nell’anno dell’Expo dedicato all’alimentazione, è quantomai urgente e necessario mobilitarsi per porre fine allo sfruttamento che nutre solo i ricchi del pianeta.

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Sul caporalato e dintorni

(di Devi Sacchetto, da ∫connessioni precarie)

Il dibattito apertosi sul caporalato, dopo la morte in Puglia di alcuni braccianti italiani e stranieri, solleva alcune questioni centrali. E, tuttavia, ci pare che la riduzione del fenomeno del caporalato all’agricoltura meridionale e all’alleanza tra mafia e aziende conserviere operata da alcuni autorevoli commentatori finisca per occultare la questione delle condizioni e dei rapporti di lavoro. Il riemergere di forme di intermediazione illegali è infatti diffuso in vari settori produttivi e in diverse aree italiane. Le prolungate lotte nella logistica, in particolare quella emiliana e veneta, portate avanti dai lavoratori migranti assunti da cooperative, etichettate prontamente come spurie,  hanno svelato un sistema relativamente analogo; così anche nel turismo romagnolo agenzie di intermediazione rumene hanno rifornito per diversi anni gli albergatori di manodopera fresca e possibilmente a digiuno di esperienze all’estero. L’edilizia è poi un settore in cui l’intermediazione illegale o semi-legale di manodopera è diffusa dal nord al sud del paese. Certo, non tutte queste situazioni sono etichettabili sotto la forma del caporalato, ma tutte sono caratterizzate da una capacità di rapida movimentazione di manodopera e da un doppio comando sul lavoro che può poi estendersi nel territorio fino alle comunità di provenienza dei lavoratori in Italia come all’estero. Non si tratta solo di padroni o caporali crudeli e spietati, ma di un sistema produttivo che può appoggiarsi a un mercato del lavoro internazionale garantendosi il reclutamento potenziale di sempre nuova e diversificata forza lavoro sia dal Mediterraneo, per chi ce la fa, sia dall’Europa orientale. È una politica dello spazio che assicura il collocamento di lavoratori in contesti sovente a loro estranei, nei quali diventa problematico persino trovare un ufficio pubblico.

Le norme sul lavoro varate in questi ultimi vent’anni hanno progressivamente eroso sia la possibilità di difendersi nel posto di lavoro sia di contrastare i fenomeni irregolari, grazie tra l’altro al progressivo impoverimento delle risorse ispettive. Non si tratta solo della proliferazione contrattuale, buona ultima l’introduzione del contratto a tutele crescenti, ma anche delle possibilità di gestire le aziende facendo ricorso a varie forme di esternalizzazione. È il modello dell’appalto che si diffonde come nel caso di Uber, la società dei taxi che stipula un accordo con il taxista-contractor isolato e atomizzato. Complicato poi appellarsi a una qualche coscienza civica quando i livelli salariali sono infimi. Al giornalista che chiedeva se meno di due euro l’ora non fosse da considerarsi schiavitù, il marito di Paola Clemente, la bracciante morta il 13 luglio, rispondeva: «erano soldi sicuri. Per come stanno le cose in Italia era denaro importantissimo. Erano indispensabili. Ci permettevano di campare». Dichiarazioni che si collocano a una distanza siderale rispetto a quelle del procuratore capo di Trani: «Sul fenomeno del caporalato c’è un muro di gomma, la gente preferisce guadagnare pochi spiccioli anziché collaborare alle nostre indagini». La lontananza incolmabile tra queste due affermazioni evidenzia non tanto un problema culturale, quanto condizioni materiali che sono oggi sempre più diffuse. Eppure il caporalato è oggi un reato penale grazie a una norma approvata dall’allora governo Berlusconi il 13 agosto 2011 sulla spinta dell’incredibile sciopero dei braccianti migranti a Nardò. Né tavoli di concertazione né Commissioni d’inchiesta, ma una lotta poderosa e inaspettata di quelli che in molti continuano a degradare a ultimi della terra, era riuscita a smuovere il pantano politico e giudiziario. Perché quella lotta permise anche alla Direzione distrettuale antimafia di Lecce di raccogliere informazioni cruciali i merito al caporalato. Ma le morti di questi giorni dimostrano drammaticamente come legislazioni e processi giudiziari da soli non possono modificare i rapporti di lavoro. Il caporalato altro non è che un modo per gestire e controllare una forza lavoro povera che non può rifiutare il lavoro. Se come dice il Presidente del consiglio: «qualsiasi lavoro è meglio di un non lavoro» e le misure governative puntano a ridurre il salario diretto e indiretto, il caporalato diventa una conseguenza quasi inevitabile. A poco rischia di servire la nuova legge immediatamente approvata sui giornali e in televisione che, secondo le parole del volonteroso ministro Martina, dovrebbe addirittura prevedere «la confisca dei beni per le imprese che si macchiano del reato di caporalato». Il caporalato sarebbe così equiparato a un reato di mafia. Accortosi forse di essersi allargato un po’ troppo, il ministro ha però subito rassicurato che la «grande maggioranza delle imprese agricole sono realtà sane e in regola», restituendo così il caporalato alla dimensione di un fenomeno di cui ci si può scandalizzare. Scandalizzarsi per i caporali e i morti sul lavoro e contemporaneamente considerare il sindacato come un impedimento all’ammodernamento del paese è però una politica da equilibristi schizofrenici. Se poi il sindacato vive solo nelle pagine dei giornali e nei dibattiti nazionali non si può nemmeno lamentare del suo declino. Come insegnano le lotte nella logistica, per eliminare il caporalato ci vuole altro.