Attualità

FIAT, 14 ottobre 1980: storia di una sconfitta operaia

La lotta dei 35 gioni contro i licenziamenti, la marcia antioperaia dei capi e dei crumiri, un accordo bidone che subisce il piano padronale. Tutto in un articolo di trent’anni fa che sembra scritto per le vicende odierne di Pomigliano d’Arco.

15 Ottobre 2010 - 00:55

Questo articolo è stato pubblicato trent’anni fa sulla rivista bolognese “ANTITESI”. La narrazione sulla lotta dei 35 giorni, della marcia dei 40 mila e della sconfitta della classe operaia FIAT nell’ottobre 1980, può essere motivo di riflessione rispetto a vicende che vedono, ai giorni nostri, ancora protagonista la fabbrica automobilistica torinese (ormai trasformata in multinazionale) nel far pagare i costi della crisi agli operai che lavorano nei suoi stabilimenti. Ieri Romiti, oggi Marchionne, ieri come oggi operai in conflitto contro i loro padroni.

Quando il 10 settembre 1980 la Fiat annuncia 14.469 licenziamenti in fabbrica è subito chiara la portata della posta in gioco, l’azienda di Torino ha due obiettivi centrali: il primo è di rapportarsi alla struttura produttiva delle imprese “emergenti” del mercato mondiale dell’auto; il secondo è l’eliminazione definitiva dei comportamenti di classe, dei soggetti antagonisti, delle avanguardie di fabbrica che pur attaccati duramente negli ultimi anni, erano stati capaci di riprodursi e di inceppare i meccanismi di ristrutturazione che dal 1975 venivano portati avanti .
La FIAT si è trovata di fronte a una situazione in cui la sua struttura produttiva, concepita come grande concentrazione di forza lavoro, basata su una organizzazione di tipo tayloristico, si è rivelata obsoleta ed elefantiaca nei confronti delle imprese giapponesi dell’auto, molto più agili, con medie fabbriche di montaggio quasi completamente automatizzate, attorniate da centinaia di piccole aziende di componenti.
Il risultato, dal punto di vista produttivo, è che l’industria dell’auto giapponese, con l’inserimento massiccio dell’automazione, è riuscita a produrre la stessa quantità di automobili della FIAT con un terzo della manodopera occupata.
E’ evidente che un simile risultato, con costi molto più bassi e livelli di produttività elevatissimi, rende l’industria giapponese molto competitiva sul mercato mondiale. La conseguenza è la crisi di tutti gli altri colossi dell’auto (americani, tedeschi, inglesi, francesi e italiani) e l’obsolescenza dei loro sistemi produttivi.
E’ partita così la rincorsa al “mostro giapponese” e chi ne ha pagato le spese sono stati, ancora una volta, soprattutto gli operai. L’epilogo delle ristrutturazioni da competitività si sintetizza, infatti, nelle decine di migliaia di licenziamenti alla Ford, alla Crysler, alla Leyland, alla Volkswagen.
Il paradosso è che questi processi ristrutturativi che tagliavano l’occupazione hanno sempre ricevuto finanziamenti statali; persino negli USA ultraliberisti (da sempre contrari ad ingerenze dello Stato nell’economia) c’è stato per la prima volta un intervento della amministrazione Carter teso a finanziare il piano di ristrutturazione dell’industria dell’auto americana.
La FIAT voleva avere la stessa libertà di licenziare, la stessa possibilità di uso flessibile della forza lavoro e pretendeva, così come le concorrenti estere, un cospicuo gruzzolo di miliardi di lire (2.000) da parte dello Stato.
Anche la FIAT, da qualche anno, ha introdotto nel ciclo produttivo processi di automazione, i robot hanno iniziato a vedersi alle linee di montaggio della Ritmo e della Panda. Ma si è trattato di un’introduzione limitata, che non è risultata redditizia di fronte agli enormi costi di investimento. Era perciò necessario il salto di qualità, l’automazione e la robotizzazione dovevano diventare una scelta di fondo e non solo di tendenza.
Analizziamo un altro aspetto che l’attuale struttura produttiva FIAT ha prodotto. La grande fabbrica era stata concepita per risparmiare notevolmente dal punto di vista dei costi, le grosse linee di produzione ne avevano rappresentato la caratteristica centrale; l ‘organizzazione del lavoro basata sulla catena di montaggio era considerata una delle forme più efficienti di comando sul lavoro. Ma in questa organizzazione produttiva capitalistica si erano prodotte le prime crepe a partire dalle lotte operaie del 1969.
La grande fabbrica aveva sì voluto dire per i padroni maggiori profitti, ma, dal punto di vista dell’antagonismo di classe, ha rappresentato la possibilità di una più agevole organizzazione della massa operaia. La catena di montaggio, se dal punto di vista lavorativo ha voluto dire parcellizzazione, divisione, controllo, dal punto di vista della lotta di classe è stato un formidabile vettore di coagulo di esigenze, bisogni, esperienze di lotta, espresse da quello strato operaio dequalificato, super sfruttato (l’operaio massa), creato dalla catena stessa.
Il secondo obiettivo dell’attacco FIAT era l’eliminazione dell’antagonismo di classe. La struttura produttiva aveva fatto emergere una nuova figura, l’operaio massa, che aveva espresso tutta una serie di comportamenti conflittuali, dal rifiuto del lavoro alla disaffezione, dall’egualitarismo alla conflittualità permanente.
Questi comportamenti, in un primo momento, avevano messo in crisi la struttura produttiva capitalistica. In una seconda fase, a metà degli anni settanta, ci fu un violento attacco padronale per distruggere quella figura sociale. Questi furono i passaggi: accerchiamento della grande fabbrica, lavoro nero, economia sommersa, fabbrica diffusa.
Gli operai, però, erano riusciti a costruire forme di resistenza alla ristrutturazione capitalistica: parliamo dell’assenteismo, della microconflittualità, delle mille lotte di reparto.
I nuovi assunti del 1978 portarono in fabbrica i comportamenti del movimento del ’77, che sfociarono nelle giornate di lotta del luglio 1979 per la chiusura del contratto.
“La FIAT ha l’esigenza di rendere governabile la fabbrica. Credo che in quest’ultima ondata a Mirafiori sia entrato un po’ di tutto, dallo studente al disadattato, s’è proprio raschiato il fondo del barile. Una realtà magmatica molto complicata, un porto di mare con gente che entra senza avere dimestichezza né, a volte, attitudine al lavoro”.
Queste non sono parole di Cesare Romiti, ma di Adalberto Minucci prestigioso esponente del PCI torinese.
La ricchezza di quei comportamenti, al di là delle paturnie di Minucci, ha permesso all’antagonismo di classe, colpito più volte, di riproporsi sempre in forme nuove.
Il 9 Ottobre 1979, però, a pochi mesi dalla firma del contratto, la FIAT inizia il suo progetto di annientamento totale dei soggetti antagonisti.
Sessantuno avanguardie di fabbrica vengono licenziate, rappresentano i vari momenti della lotta operaia degli ultimi 10 anni. La giustificazione della FIAT è di estirpare i rappresentanti del terrorismo in fabbrica, in realtà è un primo assaggio per vedere le reazioni al suo piano più generale. Si inizia dagli elementi più combattivi, da chi nei reparti ha tirato la lotta, per sferrare poi, in un secondo tempo, l’attacco finale.
II sindacato sostanzialmente accetta la manovra di Agnelli; non a caso dichiarerà due ore di sciopero dei soli metalmeccanici. Dopo diverso tempo anteporrà, come pregiudiziare alla tutela legale, la firma di un documento di condanna delle forme di lotta violente.
II sindacato ha utilizzato quindi il licenziamento dei 61, per togliersi di mezzo dei rompiscatole. In fin dei conti, aveva subito quelle forme di lotta (cortei interni, picchetti, blocchi, limitazioni dei rendimenti) che spesso gli erano sfuggite di mano.
La massa degli operai “non coglie” la portata dell’attacco della FIAT: esclusi i reparti dove i compagni sono presenti, la risposta di lotta non c’è.
Dopo pochi mesi dal licenziamento dei 61, gli operai si accorgono che la situazione e i rapporti di forza all’interno della fabbrica stanno rapidamente cambiando. I capi cercano di riprendere altezzosamente il potere che 10 anni di lotta operaia aveva tolto loro, tornano a fioccare ammonizioni, multe e sospensioni.
Dal mese di gennaio 1980 inizia poi la falcidia di licenziamenti per assenteismo, ad un ritmo di 500 al mese, per arrivare ai 2.000 del mese di luglio.
In fabbrica si crea un vero e proprio clima di terrore: il tasso di assenteismo passa dal 17% al 5%, tornano a lavorare per la paura di essere licenziati operai gravemente ammalati: il caso più clamoroso è quello dell’operaia morta in reparto il giorno dopo aver abortito, era andata a lavorare per la paura del licenziamento.
Poco prima delle ferie, Umberto Agnelli, in un’intervista a Repubblica, inizia a parlare di crisi del settore auto, di piazzali pieni, di alcuni prodotti molto carenti sul mercato e della necessità di un taglio della occupazione: 25 mila licenziamenti da attuarsi nel mese di settembre 1980.
Solo così la FIAT potrà investire 5.500 miliardi per il piano di ristrutturazione.

LA LOTTA OPERAIA D’AUTUNNO
La Federarzione Lavoratori Metalmeccanici (FLM), di fronte alle bellicose dichiarazioni della FIAT, prospetta una serie di risposte.
La crisi dll’auto è un riscontro obiettivo, ma può essere risolta all’interno della FIAT con blocco del turn-over, cassa integrazione a rotazione, prepensionamenti, mobilità interna (dal settore auto ad altri settori). Le confederazioni CGIL CISL UIL in questa prima fase non si pronunciano chiaramente.
Si può notare, fin da subito, come questo tipo di proposte fossero subordinate alle esigenze FIAT e aprissero la strada ai propositi di Agnelli.
Agli inizi di settembre, senza consultare gli operai, iniziano le trattative tra FIAT e FLM.
L’azienda presenta subito la sua piattaforma: 24 mila subito in cassa integrazione a zero ore, fino alla fine dell’anno, utilizzo del famigerato art. 4 del Contratto Nazionale di Lavoro e avviamento di processi di mobilità interaziendale (la FIAT sostiene che gli operai in mobilità possono essere inseriti in altri settori tipo l’edilizia), si tratta di una prospettiva di licenziamento neppure tanto larvata.
La fase della trattativa prosegue, non ci sono iniziative di lotta nè consultazione degli operai: la FLM mantiene le sue posizioni, la FIAT le proprie. CGIL CISL UIL intanto affermano che non sono pregiudizialmente contrarie alla mobilità esterna, anzi l’hanno sempre sostenuta per soluzioni di riequilibrio dell’economia: occorrono però garanzie precise. :
La trattativa va avanti con la FIAT arroccata sulle sue posizioni, la FLM invece, su pressione delle confederazioni, inizia a “trasformare” le proprie: cassa integrazione a rotazione fino al 31 marzo 1981, poi verifica della situazione e, se si accerta la neccessità del ricorso alla mobilita esterna, si può dare il via libera.
Ma la FIAT non è ancora contenta, perciò inizia l’invio delle 24 mila lettere di sospensione.
Le liste erano pronte da tempo: capi, responsabili di settore e dirigenti avevano lavorato per tutti i mesi estivi per redigerle.
L’intendimento dell’azienda è chiaro: gli elenchi sono pieni degli operai che hanno sempre lottato con più determinazione, delle donne che non sono state ai piani di sfruttamento che la FIAT aveva predisposto per loro e dei lavoratori che hanno menomazioni per incidenti sul lavoro o con malattie professionali.
A questo punto, anche se a Roma le trattative non si rompono, ci pensano gli operai a dare la risposta che la FIAT si merita: lo fanno in forme e modi che da anni non si vedevano.
Partono gli operai del Lingotto, seguiti subito dopo da quelli delle altre sezioni. La FIAT rimane completamente bloccata: cortei interni ed esterni, picchettaggi dei cancelli 24 ore su 24, blocco delle merci.
Gli operai entrano in fabbrica, marcano il cartellino, e poi in assemblea decidono le forme di lotta giorno per giorno.
Il vento di Danzica è ancora vicino, la formidabile lotta degli operai polacchi ha lasciato il segno.
Viene imposto lo sciopero ad oltranza, gli operai spingono perché si arrivi all’immediata occupazione di tutti gli stabilimenti FIAT. Vogliono lo sciopero generale. Le trattative devono essere messe in diretta TV e devono ritornare a Torino per avere un maggiore controllo.
Se gli operai dei cantieri Lenin di Danzica avevano issato sui cancelli l’immagine del Papa Giovanni II, ai cancelil di Mirafiori viene appeso  un enorme striscione raffigurante Marx.
I primi 10 giorni, fino allo sciopero nazionale dei metalmeccanici del 25 Settembre, sono carichi di slancio, combattività, rabbia ed entusiasmo: l’attacco di Agnelli non deve passare.
La FLM è “costretta” ad accettare l’iniziativa per come esse si esprime. CGIL CISL UIL  mettono in luce, invece, i rischi dello sciopero ad oltranza e fanno le orecchie da mercante sulla occupazione della fabbrica e sullo sciopero generale.
Il PCI, intanto, cavalca la tigre della 1otta operaia, con il solo interesse di fare pressione per la caduta del governo Cossiga, dice di appoggiare in pieno le proposte della FLM, ma non disdegna I’eventualità del ricorso a processi di mobilità esterna.
Una posizione parecchio strumentale.
Una prima considerazione che si può fare, dopo questa prima fase di lotta, è la disparità abissale tra le iniziative di lotta e le forme organizzate che dovrebbero sorreggerle. Manca un’organizzazione di massa che rappresenti le istanze operaie, che non puo’ di certo essere individuata nel sindacato.
A questo punto entra in campo il governo: il ministro del lavoro Foschi fa una proposta di mediazione I punti presentati sono: prepensionamenti, blocco del turn-over, cassa integrazione a rotazione, mobilità esterna contrattata, vedendo i possibili settori dove inserire gli operai messi in mobilità e organizzando corsi di riqualificazione professionale per gli operai sospesi. La proposta viene ritenuta insufficiente dalla FIAT, la FLM avanza delle critiche, sono invece d’accordo CGIL-CISL-UIL, DC, PRI, PSDI, PCI, PR, PDUP.
Il pensiero degli operai viene espresso chiaramente nella manifestazione nazionale dei metalmeccanici che si tiene a Torino il 25 Settembre. I cortei sono molto combattivi, i sindacalisti, soprattutto Pier Carniti, vengono contestati duramente in piazza al momento del comizio.
“No ai licenziamenti, No alla mobilita, No alla cassa integrazione”, questi sono i punti fermi per cui gli operai lottano.
Che si tratti di un puro discorso di resistenza è chiaro: i suoi limiti affioreranno nella fase finale della lotta. Il tema della riduzione dell’orario di lavoro (come proposta di un programma operaio da contrapporre al programma dei tagli padronali) viene discusso solo tra le avanguardie di fabbrica, non esiste però un percorso articolato per praticare questo obiettivo.
Il 2 ottobre 1980 CGIL CISL UIL proclamano di malavoglia uno sciopero generale di 4 ore che, dichiarato in questo modo, perde molto della sua valenza politica.
A togliere d’impiccio i vertici sindacali ci pensano i franchi tiratori che fanno cadere il governo Cossiga sul cosiddetto “Decretone-bis”. Lo sciopero, a questo punto, viene revocato.
Il PCI soddisfatto mette da parte immediatamente la sua falsa combattività. La FIAT, per dimostrare il suo senso di responsabilità di fronte alla nazione, per non creare ulteriori situazioni di turbamento, dichiara la sospensione dei provvedimenti fino alla fine dell’anno.
Il PCI soddisfatto canta vittoria, il sindacato pure, ma gli operai capiscono che si tratta di una mossa di attesa che nasconde un’iniziativa di Agnelli ancora piu infida.
Infatti, dopo pochi giorni, iniziano i ricorsi alla magistratura contro i blocchi delle merci, si minacciano denunce contro i picchettanti. All’Autobianchi di Desio la direzione attua la serrata per il blocco delle merci.
Nei giorni successivi, un gruppo di duecento tra capi, crumiri e picchiatori fascisti, nel corso della notte, sfonda un picchetto aggredendo con spranghe e bastoni i non molti operai presenti. E’ la scusa per fare arrivare la polizia ai cancelli.
Parallelamente, la FIAT invia alla magistratura 300 denunce contro operai che hanno partecipato ai picchetti.
Il sindacato comincia a manifestare i dubbi che ha sempre avuto su queste forme di lotta, parla di articolazione, ma gli operai che hanno diretto la lotta fino a questo punto insistono: sciopero ad oltranza.
I dirigenti delle varie fabbriche del gruppo FIAT decidono di ritirarsi dagli stabilimenti “perché non possono svolgere i laro compiti regolarmente”.
Il pretore di Desio ordina la rimozione del blocco delle merci. La FLM, il giorno prima dell’esecuzione della sentenza ,decide di togliere il blocco per non creare tensione.
Intanto, il “partito dei capi” inizia ad organizzarsi pubblicamente: fanno riunioni, rilasciano interviste ai giornali, preparano una scadenza contro la lotta.

L’ACCORDO BIDONE
Si arriva così alla sciopero generale del 10 Ottobre 1980, anche se ormai non ci crede più nessuno. L’astensione ha una discreta riuscita nell’industria, soprattutto al nord, ma i cortei nelle varie città non sono molto partecipati. Molta carica è andata scemando.
Ormai è opinione diffusa che la soluzione della vertenza FIAT sia scontata. In questo finale la volontà operaia è ben poco tenuta in considerazione.
La mazzata conclusiva la dà  la famosa marcia silenziosa dei 40 mila (in realtà erano solo 15 mila, ma il giornale della FIAT, La Stampa, scrisse 40 mila e 40 mila passarono alla storia). Per la prima volta, tutta la schiera dei leccapiedi del padrone prende il coraggio di schierarsi contra la lotta operaia in modo organizzato. Sono capi, impiegati, dirigenti, intermedi, operai crumiri, padroncini delle boite dell’indotto, cittadini benpensanti; vengono definiti la “maggioranza laboriosa”, hanno come slogan: “Vogliamo lavorare in pace”.
Sarebbe stato piu adatto “Vogliamo comandare in pace”, anche perché gran sgobboni non sono: questi preferiscono far lavorare gli altri, mentre loro controllano.
II sindacato parla di grossa sconfitta della lotta operaia per la frattura che si è creata: con questa scusa si chiude la vertenza come la FIAT voleva.
Infatti, sarebbe bene ricordare che se alla FIAT ci sono 18 mila capi, duemila dirigenti, diverse migliaia di impiegati e tecnici, e  migliaia sono le boite dell’indotto, dentro agli stabilimenti della fabbrica di automobili ci sono anche 200 mila operai.
Del resto, il livore antioperaio di coloro che erano alla marcia dei capi non è certo una novità degli anni ’80.
Il 15 ottobre 1980 il sindacato firma di tutta fretta un accordo famigerato che accetta in sostanza tutte le cose che la FIAT aveva sempre voluto: cassa integrazione a zero ore per 24 mila operai, cassa a rotazione solo per le linee dei modelli 131 e 132; avviamento di processi di mobilità extraziendali; gli operai che entro il 30 giugno del 1983 non avranno ancora trovato lavoro verranno reintegrati in FIAT (non ci crede nessuno). La FIAT ritirerà le precedenti lettere di sospensione.
II sindacato dice che è un risultato positivo, anche il PCI è d’accordo, “non si poteva at tenere di più” dice.
Il PSI, invece, parla di accordo storico che deve dare una svolta nelle relazioni industriali.
L’assemblea dei delegati di Torino, rifiuta l’accordo, ma i vertici sindacali decidono egualmente di andare alle assemblee di fabbrica. Qua succede di tutto: Carniti viene aggredito; Lama è costretto a fuggire per un’uscita secondaria, scortato dal servizio d’ordine sindacale; Benvenuto è fischiato e sbeffeggiato; Galli è interrotto a metà discorso; Mattina è colto da malore.
Una cosa però è chiara; la maggioranza degli operai dice NO all’accordo.
Ebbene, con una spudoratezza senza eguali, dopo una lunga riunione tenuta a Roma, il vertice del sindacato dichiara: “i conteggi delle votazioni sono stati un po’ problematici, ma risulta evidente la netta maggioranza dei voti favorevoli all’accordo”.
Questo succede di venerdì, già il sabato seguente il sindacato concede gli straordinari per gli addetti alla manutenzione per riattivare gli impianti per il lunedì successivo.
Gruppi di operai dissidenti organizzano picchetti per impedire gli straordinari, ma stavolta la copertura del sindacato non c’è e interviene immediatamente la polizia per scioglierli.
Il lunedì riprende il lavoro: la FIAT sostiene che scorre ordinato e fluente, non ci sono più contestazioni salvo rarissime eccezioni.
I rompicoglioni sono spariti definitivamente, nessuno si azzarda più a dire qualcosa o ad allontanarsi dal posto di lavoro.
I capireparto, i capisquadra, gli intermedi si sentono i veri vincitori, sono estremamente boriosi, la ragione sarà sempre loro.
Alla catena, con meno operai si fanno più macchine di prima, i carichi di lavoro sono aumentati in tutti i reparti . L’assenteismo e crollato al 5%. La microconflittualità è quasi scomparsa.
Solo qualche fermata, nelle settimane successive, contro l’aumento dei ritmi, ma cose di poco conto. E i piccoli scioperi non sono a Torino, ma a Termini Imerese e Cassino.

LA VOGLIA DI NORMALIZZAZIONE
Dei 24 mila sospesi nessuno si illlude di tornare alla FIAT. Nei giorni successivi all’accordo, in un cinema, si sono tenute molte assemblee degli operai sospesi, ma regna frustazione ed impotenza.
Questo è quello che il sindacato ha ottenuto sfruttando 35 giorni di lotta e mezzo milione di lire perse dal salario di ogni operaio.
Il sindacato agli inizi degli anni ‘70, per stare al passo con le lotte del ’69 si era dato una facciata conflittuale, cercando di avere una funzione di mediazione tra le esigenze dello sviluppo capitalistico e i bisogni degli operai. Aveva costruito i consigli di fabbrica per recuperare le espressioni di autonomia di classe emerse dalle lotte operaie. Questo recupero, però, non era riuscito. Infatti, anche i consigli si sono dimostrati per un lungo periodo strutture di espressione di autonomia operaia.
Con la crisi il sindacato si dà un nuovo volto, anche allora, nel 1975, si parlò di svolta storica. Un sindacato non più rivendicativo, ma che si fa responsabile delle esigenze economiche del paese e delle imprese. “Nuovo modello di sviluppo” è lo slogan di questa nuova fase. Collaborazione con la ristrutturazione capitalistica è invece la conseguenza pratica.
Nelle piattaforme aziendali fanno breccia i famosi “cappelli politici”, le cosiddette “prime parti” che tolgono ampio spazio alle richieste normative e salariali. Sui consigli di fabbrica occorre più controllo. Occorre piegarli alle nuove direttive, gli esecutivi dei CdF devono diventare la cinghia di trasmissione per le decisioni del sindacato. II culmine di questa nuova fase si ha nel 1977 con l’entrata del PCI nell’area di governo, con la famigerata linea dell’EUR, quella dei sacrifici in cambio della programmazione economica.
Si hanno così gli accordi che tolgono le festività e la contingenza sulle pensioni. Le richieste salariali diventano quasi inesistenti. Sembra ormai tutto normalizzato, la maggioranza della classe operaia sembra disposta “a farsi Stato” come da tempo il PCI predica. Non si riesce a costruire nessun momento di collegamento tra lotte di altri strati di proletariato (i giovani del  movimento nel ’77 e gli operatori ospedalieri nel 1978) e i settori di proletariato industriale.
La normalizzazione però non è data. La linea dell’EUR che ha permesso alla ristrutturazione capitalistica di creare crepe profonde nel corpo di classe, viene poco alla volta smantellata da nuove espressioni di iniziativa operaia. I primi sintomi si hanno nel ’79, ma sarà la fase delle vertenze aziendali del 1980 che farà saltare completamente la politica dei sacrifici.
Gli operai imporranno di nuovo forti aumenti salariali, ancora una politica di egualitarismo contro la famosa riparametrazione voluta dal sindacato.
Si arriva così alla vertenza FIAT e alla proposizione di una nuova svolta.
E’ una “grande svolta di moderazione” che prefigura il sindacato che si fa istituzione, Stato.
La chiamano la cosiddetta “germanizzazione” del sindacato, che dovrebbe passare dalla “centralità operaia”, alla centralità dell’impresa, che dovrebbe farsi carico della crisi del capitalismo ponendosi i suoi stessi problemi di produttività, competitività, efficienza.
Secondo questa tesi, il sindacato deve cogestire le grandi scelte dell’economia, facendosi carico delle necessità del sistema.
Questo disegno che stava alla base della politica di unità nazionale, ora viene descritto come un processo di “europeizzazione”. La nuova linea di politica economica dice che bisogna accettare un aumento dei profitti come strumento di accumulazione, che bisogna fare della produttività un cavallo di battaglia.
Dal punto di vista partitico, il protagonista della svolta è il PSI, nelle sue componenti della CGIL: è il cosiddetto “nuovo corso laburista”.
II PCI sulle prime è stato un po’ preso in contropiede, ma poi, nell’ultimo comitato centrale (novembre 1980) ha dato il completo appoggio a questa svolta, facendo diverse critiche alla lotta degli operai della FIAT.
Per quanto riguarda le strutture che il “nuovo” sindacato deve avere in fabbrica, non si parla di eliminazione dei consigli, ma di normalizzazione, stavolta effettiva, mettendo da parte chi non si inquadra con il nuovo corso. I consigli devono trasmettere effettivamente alla base le scelte politiche dei vertici sindacali e non solo sulla carta.

LA SPROPORZIONE TRA LE FORME DI LOTTA E I RISULTATI OTTENUTI
Fino a quando sarà possibile tirare nelle lotte per raggiungere poi risultati simili a quello della FIAT?
E’ sempre più inconcepibile la sproporzione tra le forme di lotta operaie e gli obiettivi per cui il sindacato va a trattare.
Che nesso c’è tra lo straordinario mese di lotta e l’accordo firmato dal sindacato con la FIAT?
Cosa ci può essere in comune tra le splendide giornate del luglio 1979 e la firma di un contratto che introduceva con il famigerato art. 4 la mobilita esterna?,
In questi anni ci sono state esperienze significative sul terreno dell’organizzazione di classe: dai Comitati Unitari di Base del 1969 alla prima fase dei consigli di fabbrica, dai Comitati e collettivi operai che nel 1975/76 hanno gestito (in alcune grandi fabbriche) la lotta alla ristrutturazione ai comitati di lotta degli ospedalieri e dei lavoratori dell’Alitalia.
Tutti questi organismi dell’autonomia di classe hanno saputo evidenziare i bisogni dei lavoratori, esprimendo un grande protagonismo sul terreno delle forme di lotta. Ma, al momento della trattativa, erano i sindacati che entravano in campo e, molto spesso, lotte eccezionali si concludevano con accordi bidone.
Con la sconfitta alla FIAT nell’ottobre 1980  si conclude una fase di 10 anni di lotta operaia. Una fase in cui il problema non era la mediazione, ma la pratica dell’obiettivo, la forma di lotta scardinante e l’imposizione del contropotere proletario. Ma contropotere non è l’espressione di forza proletaria che si può esprimere in una fase di lotta; è la capacita di aprire spazi duraturi, ottenere punti fermi che permettano il consolidamento e l’allargamento dell’egemonia proletaria. Ci sarà ancora un periodo (lungo) di convivenza, certamente conflittuale, tra il potere dominante e forme di contropotere proletario che si devono stabilizzare anche con una serie di successi parziali.
Le tematiche che dovranno essere al centro di un programma operaio non devono essere riscoperte. Centrale dovrà essere il discorso dell’orario e della riduzione della giornata lavorativa.
E’ una risposta non difensiva da dare ai padroni che usano l’automazione e la robotizzazione per licenziare e aumentare lo sfruttamento per gli operai che rimangono.
“Lavorare tutti per lavorare di meno, sempre di meno”, questo è lo slogan che schematicamente dovrà rappresentare il nostro programma.
E’ quindi fondamentale che sulla questione dell’orario di lavoro si apra al piu presto il dibattito per trovare un’articolazione rivendicativa adeguata che sia credibile per la massa degli operai.
Difesa del reddito, iniziative sull’egualitarismo, salvaguardia e rafforzamento di tutte 1e forme di rifiuto del lavoro salariato sono le altre questioni al centro dell’iniziativa di classe.
Costruire nei prossimi anni un’iniziativa politica su queste tematiche non sarà facile.
Occorrerà sicuramente ricostruire una credibilità, in molti casi perduta, con uno sforzo di iniziativa sociale capillare e con la costruzione di un’organizzazione rivendicativa di classe capace di sviluppare il conflitto e raggiungere obiettivi concreti legati ai bisogni sociali.

Novembre 1980
Valerio Monteventi