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Egitto / «La voglia di essere liberi, quando la provi una volta, ne vuoi sempre di più»

Come il presidio di Piazza Tahrir ha resistito fino alla caduta di Mubarak, diventando uno spazio sperimentale di autorganizzazione e di liberazione, «un modello che stabilisce un precedente».

15 Febbraio 2011 - 20:38

> Riceviamo da Bartleby e pubblichiamo integralmente:

Una nostra amica, in Egitto da un paio di anni anni, ha vissuto nelle proteste degli ultimi mesi. In questi giorni abbiamo sentito la sua paura e il suo entusiasmo. Ci sembrava giusto chiederle un racconto di quanto stava avvenendo e renderlo noto a tutti quelli che seguono Bartleby. Da parte nostra possiamo dire che è stato molto emozionante sentirla dire “dopo cena vado a fare la rivoluzione” e risentirla il giorno dopo “alla fine la rivoluzione l’ho fatta prima di cena”.

Un saluto e un abbraccio.

“Posso controllare il passaporto? Hai nulla di contundente nella borsa?”- passati i check point di maidan Tahrir, in media due controlli per ogni entrata, si accede ad uno spazio aperto vastissimo, normalmente cuore del traffico cairota, e trasformato durante i diciotto giorni di protesta in un gigantesco sit-in. Un esempio di auto-organizzazione difficile da spiegare, che ha contribuito in gran parte alla spallata al regime.

“Ho studiato medicina all’Università del Cairo. Mi sono unito alla protesta fin dall’inizio, dal 25 gennaio. Poi dopo il 29 ho capito che c’era bisogno di persone capaci di fornire primo soccorso e ho detto che ero disponibile. Normalmente sono all’ospedale da campo vicino a shar’a Muhammad Muhmud.”

“Attacchiamo i giornali qui ogni mattina, così le persone che dormono in piazza sanno cosa succede. Se escono dichiarazioni, ci teniamo aggiornati. Abbiamo attivato dei punti per utilizzare la corrente con prese multiple per le macchine fotografiche e i cellulari. Poi abbiamo istallato due schermi vicino all’entrata di shar’a Thalahat Harb e un telo per proiezioni sul lato sud-est della piazza. Così possiamo proiettare le notizie. Molte persone che sono qui sono arrivate dal Delta o da altre regioni fuori il Cairo, mica possono tornare a casa e guardare la TV”.

“Stiamo raccogliendo e organizzando tutti gli artisti che passano di qua. Vogliamo documentare e raccontare la storia di questi giorni. Molti aiutano anche con l’area che abbiamo allestito per i bambini. Qui arrivano famiglie intere. Le scuole e gli asili sono chiusi adesso e allora abbiamo organizzato una specie di scuola da campo”.

“Stiamo provando a differenziare i rifiuti. Abbiamo trascinato i bidoni dalle aree limitrofe alla piazza. Distribuiamo sacchi dell’immondizia e guanti e i volontari che passano di qua raccolgono la spazzatura. Così teniamo la piazza pulita. Questa maidan è sempre stata una delle zone più sporche della città, ora che ce la siamo ripresa, che è nostra, la teniamo come si deve”.

Il livello di auto-organizzazione all’interno dello spazio-piazza, nelle ultime due settimane e mezzo, ha raggiunto livelli impressionanti, considerando il numero delle persone che hanno abitato qua per giorni e giorni e le dimensioni stesse dell’area -una distesa ininterrotta tra la sponda est del Nilo, il Museo Egizio e l’Università Americana.

L’area di Tahrir ha fornito alle sue decine di migliaia di abitanti accampati tutto il necessario. “Benvenuti nella Repubblica di Tahrir, qui ogni scelta è fatta in comune. Si discute nelle aree delle tende e poi si decide. Ci sono anche assemblee organizzative ristrette. Siamo tutti determinati ad ottenere pochi punti ben chiari e, finché non saranno soddisfatti, noi da qui non ce ne andiamo”.

Se il piano politico in questi giorni è rimasto sempre di basso profilo e concentrato su richieste in negativo (la fine della presidenza Mubarak, lo smantellamento del regime, lo scioglimento delle camere del parlamento), la determinazione a mantenere la protesta pacifica, l’intesa su poche istanze specifiche e l’alto livello di integrazione sociale sperimentato nella piazza hanno radunato nel cuore della capitale e nei centri principali del paese un fiume di manifestanti. Ma non solo, hanno anche generato una sorta di miracolo organizzativo che ha avuto ragione su diversi punti.

Lo spazio-Tahrir è diventato una spazio esemplare, un modello che stabilisce un precedente. In una nazione da sempre sotto il controllo di uno stato di polizia repressivo, il micro-cosmo della piazza ha mostrato che proprio quel controllo era causa e non rimedio al degrado.

Passeggiando per Tahrir nelle ultime due settimane si sentiva un senso di profonda liberazione. Questa società in scala ridotta ha dimostrato che le tensioni inter-religiose, la sporcizia, la pessima amministrazione dello spazio, l’alto tasso di risse e di molestie subite quotidianamente dalle donne, semplicemente passeggiando per strada, sono prodotto della repressione. Lo spazio gestito dai manifestanti nel cuore della città –e quindi sottratto al controllo del regime- non ha conosciuto alcuno di questi problemi. “Cammino per la piazza e mi sento al sicuro. Le persone sorridono. Sembrano più felici dei giorni normali. Dormiamo qui la notte, lasciamo qui le nostre cose e non abbiamo paura di niente. Ci prendiamo cura l’uno dell’altro. Ci procuriamo cibo e coperte a vicenda e non ci abbandoniamo mai”. La logica della paura usata dal regime -o Mubarak o il caos- e dai suoi alleati nel mondo è stata smentita in toto. Tahrir in questi giorni ha vissuto momenti di caos solo quando i supporter del Presidente, prezzolati del ministero degli interni, hanno provato ad entrare nell’area occupata.

Come ha scritto Zizek, ha senso il commento di molte persone che hanno detto di sentirsi vive per la prima volta. Al punto che qualunque cosa accada d’ora in avanti, c’è da star tranquilli, la strada da seguire è aperta. Da quel “sentirsi vivi” non si torna più indietro. E’ il sentimento chiave di una protesta che ha continuato a crescere quasi ininterrottamente nei numeri -anche quando molti scettici pensavano che il bisogno di tornare alla normalità avrebbe trattenuto le persone a casa. “La voglia di essere liberi, quando la provi una volta, ne vuoi sempre di più”.

In questo, lo spazio-esemplare della Repubblica di Tahrir ha conosciuto un momento particolarmente delicato. Durante i primi giorni di febbraio, la porzione della città momentaneamente liberata ha rischiato di restare isolata e diventare inutile. Quando i militari hanno circondato la piazza con i carri armati il 28 gennaio, assumendo controllo formale della sicurezza di tutti gli accessi e rimpiazzando la polizia, l’area ha assunto le dimensioni di una bolla chiusa in sé stessa. Un dispositivo esterno sembrava autorizzarne l’esistenza. Auto-annullando il proprio controllo all’interno della piazza, il regime esercitava su di essa un potere altrettanto forte che limitava l’auto-determinazione della lotta. La protesta ha rischiato di pagare caro questo isolamento. Qualche esempio banale: molti commercianti, soprattutto street-vendors si sono lamentati dei manifestanti accampati, quando si sono trovati con una Downtown bloccata e gli affari in caduta libera. Il sistema di recinzione attorno alla piazza contribuiva ad allontanare possibili simpatizzanti e a dividere la protesta, tenerla sotto controllo e poi sopprimerla. Allo stesso tempo, poliziotti in borghese e agenti dei servizi segreti hanno provveduto a spaventare giornalisti e stranieri di ogni nazionalità che si aggiravano per la piazza. Molti hanno lasciato il paese spontaneamente o sono stati evacuati. In forma diversa, ma sempre di perimetrazione si tratta.

A questo punto, gesti semplici ma a loro modo geniali hanno evitato il crash. La bolla che poteva scoppiare a causa di una forza esterna ha assunto una superficie porosa e si è aperta lentamente da dentro verso fuori. Street-vendors e commercianti hanno spostato i loro business all’interno della piazza – aumentando il livello di sostenibilità organizzativa della protesta e provvedendo ai bisogni degli abitanti della maidan. Sono spuntati segni e cartelli di solidarietà verso gli stranieri. Soprattutto, la Repubblica si è data alla colonizzazione. L’8 febbraio parte dei suoi abitanti si sono piazzati davanti al Majlis el-Sha’ab, camera bassa del parlamento egiziano, in una strada poco a sud rispetto a Tahrir. Dopo l’ultimo discorso di Mubarak, sono cominciate le marce verso il palazzo presidenziale, in un quartiere periferico del Cairo a circa 6 Km dalla piazza.

Disarmando dall’interno il dispositivo di controllo del regime, gli abitanti di Tahrir hanno portato il loro modello di organizzazione altrove. Con questo movimento di apertura hanno dimostrato di poter spostare i loro contenuti di libertà direttamente sotto le finestre di palazzi simbolici, ma, da tempo, vuoti di significato.

Silvia Mollicchi, Bartleby