Opinioni

Culture / Without music life would be a mistake

Che ritmo ha la nostra città? Una guida per autostoppisti del suono, disordinata e senza arte nè parte.

13 Gennaio 2018 - 17:10

di Simona de Nicola

Without music life would be a mistake.

Una volta ho letto questa frase, e ne rimasi folgorata.

Non fu tanto la frase.
Se guardo alla mia, di vita, la musica la punteggia come fanno i nodi col giunco di un bambù. Che segnano, rafforzano, uniscono i tratti dei diversi stadi dell’evoluzione di questa pianta così flessibile, così tenace.

Ciò che mi colpì fu che l’autore di questo pensiero fosse Nietzsche, di cui avevo avuto fino ad allora una visione distorta, segregata ad aspetti cupi e terribili dell’esistenza.
La colpa era forse di un’insegnante di filosofia poco appassionata. O delle mie distrazioni in aula, china sui libri che leggevo di nascosto sotto al banco.

Ero orgogliosa di questa mia infrazione del codice scolastico con un altro codice – come dire? -altrettanto scolastico.
Una volta una prof, la stessa poco appassionata di filosofia di cui sopra, mi sorprese. Mi chiese di alzarmi e di portarle il libro.
Diventai paonazza – non ho mai avuto problemi ad esprimere la più imbarazzante delle emozioni.
Mi alzai dalla mia sedia, sfilando il libro dal suo spazio sicuro, protetto.

Lo attaccai alle ginocchia, e iniziai a camminare verso la cattedra in questa posizione assurda che mi costringeva a ciondolare come fa il Molleggiato quando avanza verso la scena.
Mi parai di fronte al suo muso duro, inforcò gli occhiali sul naso ferocemente, come faceva sempre quando qualcosa irrompeva a disturbare l’ordine delle sue ore.
Le porsi il libro, lo strappò quasi alle mie mani ancora troppo vicine alle ginocchia – ma perché le ginocchia, poi?

Il partigiano Johnny, di Beppe Fenoglio

Sollevò gli occhi un paio di volte verso di me.
Le scappò un sorriso.
Fu incredibile vedere scivolare via dal suo volto quell’emozione.
Era insolita per quella prof – amabilmente ribattezzata dai suoi studenti “Pallammocc”: sembrava che avesse masticato una palla di gommapiuma, e che la tenesse parcheggiata perennemente nella bocca.
Anni dopo, valicando le Ande con la testa che sfregava il cielo, a 5000 metri di lontananza dal mare, la ritrovai. Ce n’erano tanti come lei: erano gli indigeni andini che masticavano bolitas di coca per sopportare l’altura, le temperature e la fatica di una vita così vicina alla natura nuda.

Insomma, le scappò questo sorriso. E non lo rimasticò.
Mi rese il libro e mi disse va bene de Nicola, vai a sedere. Capisco che le avventure del nostro partigiano Johnny siano molto più interessanti della logica di Hegel. Ma questa è l’ora di filosofia, non di storia.

Mi rivelò due cose, insieme.
La prima è che era una partigiana.
La seconda è che non aveva capito un cazzo di come la storia e la filosofia siano un unico grande racconto, insieme alla letteratura, alla musica, alla matematica, alla fisica e alla botanica.
Insieme a tutto quello che l’uomo pensa, e racconta con tutti i codici che ha a disposizione.

C’è un unico grande fiume che scorre, mia cara Pallammocc. 
Ecco cosa avrei voluto dirle, riportando il libro alle ormai collaudate ginocchia.
Ma mi limitai a guardarla, prima di voltarmi il più lentamente possibile per tornare al mio banco.

Non ho mai studiato Hegel. L’ho odiato dal primo istante e non me ne pento, sir Friedrich, mi sono catapultata direttamente su Merleau Ponty e su una percezione costruita su millepiani, dimentica della logica e delle categorie ingessate.

Tutta questa digressione era solo per dire questa cosa, questa cosa semplice della musica, che per me assume la forma di tutte le altre discipline che tengono dentro le grandi domande sullo spazio, sul tempo, sulla morte e sull’eternità.

Tutto questo era solo perché volevo provare a vedere che ritmo ha la mia Bologna, che vive – nel cuore gelido dell’inverno – una piccola primavera sonora.

Tutto questo era per dire grazie a tutti quelli che lavorano instancabili nella nostra città per regalare questo ritmo incessante– nelle buie e polverose stanze dei circoli underground, nei luminosi palcoscenici dei teatri, tra gli archi sensuali di ex chiese diventate spazi di cultura, nelle piazze e nella grazia degli edifici abbandonati.

Ecco come suona Bologna, in questi giorni che aspettano il gelo della Merla.

 

Suona come le chitarre distorte e la batteria rullante delle serate al Freakout – locale forse guidato da divinità sotterranee della musica, in grado di offrire 5 concerti a settimana, sempre di qualità altissima, sempre a prezzi super accessibili. Tenete d’occhio le date del loro cartellone, resterete di stucco.

 

Suona come la magia di chi inventa una performance/esperimento e costruisce – per davvero – una delle più stupefacenti invenzioni di Nikola Tesla, mettendo in scena la storia del grande scienziato serbo. Masque Teatro Nikola Tesla Lecture, in arrivo all’AtelierSì. Una gabbia di Faraday e una Tesla Coil da un milione di volt, per una narrazione che arriva dentro alle pieghe di un misconoscimento senza eguali nella storia della conoscenza. Ateliersì è tra le fucine più interessanti in città, con un orizzonte ampio di sperimentazioni legate alla musica e al teatro: novità di quest’anno, la nascente collaborazione con i ragazzi del Labàs, che hanno da poco ritrovato casa dopo lo sfratto di quest’estate, e che lavoreranno assieme a una ricerca sulle nuove forme del lavoro.

Suona relajado, come lo ska e il reggae, ballati strisciando i corpi sudati anche nel freddo delle notti più fredde nelle stanze del Sottotetto e del Vag61 – non perdetevi il 13 gennaio i 48 Roots e il 20 gennaio i Bologna Calibro 7 Pollici.

Suona febbrile, come le ondate tropicali delle cumbie esplose da qualche tempo in città.
Suona melting pot, come le sonorità nate dagli incontri e dalla sperimentazione di spazi come il Vecchio Son e il Tpo.

Suona come le lune piene delle notti a Xm24, con la sua musica pagana e le sue divinità senza dio.
Suona come il jazz pieno di blue delle note del sax e della batteria di Binker & Moses, o della voce eterna di Ginevra di Marco che canta Mercedes Sosa nell’atmosfera unica del Bravo Cafè, uno dei locali storici della Bologna del Jazz.

 

 

 

Suona lirica come lo struggimento della Tosca, le vicende tormentate dei protagonisti senza tempo della Bohème, i passi lievi della danza dello Schiaccianoci.

Suona folle come Smashed, il gioco di nove funamboli, ottanta mele, quattro servizi da tè e una colonna sonora che spazia da Bach al repertorio degli anni ’30.
Suona sempre geniale, come le parole di Rezza che fanno esplodere il linguaggio – a marzo in arrivo al Duse con uno spettacolo tutto nuovo, Fotofinish, la “storia di un uomo che si fotografa per sentirsi meno solo”.

Suona come l’arte che vive negli spazi della città, ben pensati per i benpensanti. Per i dirigenti, per quelli col portafoglio sempre gonfio – spazi che per questo vi invito a sabotare, a strappare via dai culi grassi e cadenti della bolognadotta, fatta di dinosauri e spocchiosi. L’arte è di tutti, senza divisioni, senza categorie. Andate a teatro, mettetevi eleganti, oppure no, e andate a teatro.

Suona come la rivolta che grida nei concerti nelle piazze, nelle manifestazioni, nei centri sociali.

Suona come la consolle delle notti infinite dei rave nascosti e instancabili della Bologna sotterranea.

 

 

Suona polleggiata come il beat sexy di dj Gruff – il rapadopa, il sanguemisto, lo zerostress, l’uomo leggenda dell’hip hop italiano, a Bologna questo mese al Locomotiv, con Tony Tarantino.

Suona come il rap sempre in movimento delle crew nate nei centri sociali, nelle realtà che lavorano coi migranti, delle diverse lingue che dimenticano il senso e si affidano solo al ritmo, al beat nudo.

Fa un po’ così il ritmo di Bologna.
È un po’ violento, un po’ sensuale, un bel po’ matto.
Buon divertimento.

 

(Istruzioni per l’uso di questo articolo: assumere forti dosi di caffeina e liquirizia spezzettata, cercare un angolo ben illuminato e in posizione nord-est della stanza, alzare al massimo il volume di “Blue Song”, Bologna Violenta. Sorridere sarcasticamente. Non somministrare al di sotto dei 2 anni).

Alcuni stralci di questo articolo sono tratti da “Que la muerte nos encuentre vivos”, una raccolta inedita di racconti brevi.