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“Così Questura e Prefettura amministrano la paura dei migranti”

Dal Coordinamento Migranti e altre associazioni una “campagna di denunce contro il razzismo istituzionale”. Le prime tre puntate sui “documenti precari” consegnati dalla Questura, sulla “sicurezza del lavoro nero”, sulle “nuove regole dell’accoglienza”.

23 Febbraio 2018 - 15:23

“Il razzismo democratico e i suoi complici istituzionali: Questura e Prefettura amministrano la paura dei migranti”. Con queste parole il Coordinamento Migranti presenta insieme all’Associazione Senegalese di Bologna, alla Diaspora Ivoriana dell’Emilia-Romagna e alla scuola Aprimondo “una campagna di denunce contro il razzismo istituzionale che pervade il sistema dell’accoglienza e gli effetti concreti che ha sulla vita delle e dei migranti e di tutti”. I recenti fatti di Macerata “sono la punta dell’iceberg di un razzismo e di un terrorismo contro i e le migranti che abbiamo già visto all’opera con gli spari a salve di fronte all’hub di via Mattei. Un razzismo che viene costruito e riprodotto quotidianamente e democraticamente dalle leggi sulla migrazione, dalle direttive europee, dalle malepratiche delle questure locali, dalla precarizzazione del lavoro e del permesso di soggiorno. La maggior parte dei migranti che riescono a superare il confine si ritrovano oggi nel labirinto amministrativo creato attorno al sistema dell’accoglienza. A dispetto di tutti i proclami dell’Ue per un diritto d’asilo europeo, si riafferma sul piano locale la più totale arbitrarietà, mentre le nuove regole europee puntano al restringimento della protezione internazionale. Paura, insicurezza, clandestinità. Sono le parole che descrivono la vita delle e dei migranti in Italia. Una condizione prodotta e riprodotta dalle Questure e dalle Prefetture. Una menzione speciale meritano però la Questura e Prefettura di Bologna. È merito del loro razzismo istituzionale se le e i richiedenti asilo vagano per più di un anno tra centri di accoglienza, piazze e parchi della città prima di essere ascoltati dalle commissioni territoriali. È merito loro se, nella lunga attesa, si ritrovano in mano documenti ‘precari’ con cui non possono neanche lavorare, nonostante per legge abbiano diritto a un permesso di soggiorno e alla possibilità di lavorare dopo due mesi. Ma a Questura e Prefettura va bene così. Preferiscono sfinire i migranti nell’attesa forzata dell’accoglienza, lasciarli nell’insicurezza di chi li sfrutta in nero ai banchi dei commercianti alla Piazzola per 2 euro all’ora e nell’ortofrutta, per poi consegnargli un diniego e la condanna alla clandestinità”.

La prima puntata della campagna si concentra su fatto che la Questura consegna ai migranti “documenti precari”. E cioè: “I migranti che fanno richiesta di asilo in Italia hanno diritto – secondo la legge – a un permesso di soggiorno provvisorio. I diritti dei migranti non sono però mai stati in cima alle preoccupazioni della Questura di Bologna che, invece del permesso di soggiorno, consegna un attestato di ricevuta della domanda di asilo (modello C/3) che – sempre secondo la legge – dovrebbe sostituire il permesso e certificare l’identità del titolare. Peccato che non faccia nessuna delle due cose. Ci segnalano infatti che perfino i poliziotti in servizio per la città non lo riconoscano come documento valido. E come potrebbero se fino a qualche tempo fa questo foglio era privo di foto e di un timbro che ne certificasse la validità? C’è voluta una protesta da parte dei migranti per apporre una foto e un timbro! A Bologna sono quindi i migranti a ricordare alla Questura il dovere di attenersi alla legge e di non attentare almeno alla sicurezza della loro identità. Con un ufficio dedicato all’asilo in cui pochi poliziotti impreparati non trovano il tempo di rispondere al telefono per fissare gli appuntamenti per il ritiro del permesso, la Questura di Bologna – forse troppo impegnata a garantire le libere manifestazioni del razzismo fascista in città – accompagna i migranti verso la clandestinità facendo delle procedure di rilascio e rinnovo del permesso un percorso a ostacoli che si allunga continuamente. Prima di ottenere un permesso di soggiorno i migranti devono sottostare a una trafila che dura più di un anno e che prevede prima il rilascio della ricevuta del modello C/3 e poi, dopo diversi mesi, un cedolino. Documenti a norma di legge, ma che precludono ai migranti la possibilità di costruirsi una vita. Come vedremo nelle prossime denunce: con questi documenti surrogati e precari i migranti non possono trovare un lavoro, avere un codice fiscale e aprire un conto in banca, non possono neanche avere la tessera sanitaria. Con questi documenti possono solo girare a vuoto, in attesa di un diniego o di diventare il bersaglio di un’insicurezza che li colpisce in prima persona”.

Nel secondo comunicato, “La Questura di Bologna e la sicurezza del lavoro nero”, invece si legge: “Due mesi dopo aver fatto domanda di protezione internazionale i richiedenti asilo – per legge – possono lavorare. Solo che con i documenti precari forniti dalla Questura di Bologna – ricevuta della consegna del modello C3 e cedolino in attesa di consegna del permesso – questa possibilità nei fatti non esiste. Prendiamo un caso concreto. Un migrante trova un lavoro ma prima di firmare il contratto deve fornire i suoi dati a chi lo assume, compreso il numero di permesso di soggiorno e il codice fiscale. L’attestato di ricevuta del modello C/3, che per la legge e i suoi esecutori in Questura ha tutta l’aria di essere un permesso di soggiorno, include un codice fiscale provvisorio che i datori di lavoro non riconoscono. Così, per tenersi quel lavoro che sembrava aver conquistato, il migrante va all’Agenzia delle Entrate per avere un codice fiscale definitivo, ma non può ottenerlo senza un documento di riconoscimento valido. Il fatto è che l’Agenzia delle Entrate non riconosce come tale la ricevuta del modello C/3, nonostante le convinzioni della Questura! Non solo: se mai il migrante riuscisse a superare questo ostacolo, il datore di lavoro gli chiederà di aprire un conto in banca su cui versare lo stipendio. E come può aprirlo senza un permesso di soggiorno e un codice fiscale ritenuti validi? Ecco l’odissea a cui sono condannati i richiedenti asilo, ‘colpevoli’ di volersi trovare un lavoro. Così, bloccato nel labirinto del razzismo istituzionale che contraddistingue il sistema dell’accoglienza, il richiedente asilo può dire addio al lavoro e sopportare, oltre al danno, la beffa di essere additato come uno che vive a spese degli italiani. Che cosa ha da dire la Questura di Bologna di tutto questo? Non si rende conto che in questo modo alimenta visioni razziste, mentre rende sempre più insicura la vita dei migranti lasciandoli senza lavoro? Non crede che questo sistema e le sue inadempienze spingano verso il lavoro nero, come quello che i migranti svolgono nell’ortofrutta o ai banchi dei commercianti alla Piazzola per due ore all’ora? Il fatto è che il lavoro nero è l’unico che puoi permetterti se hai in mano dei documenti precari!”.

La terza denuncia del Coordinamento parte dalla domanda: “Come vivono i migranti ai tempi dell’accoglienza? Ovvero, in che modo la Prefettura gestisce l’ordinaria accoglienza delle e dei richiedenti asilo?”

“Sappiamo già – si legge poi – che molti migranti di fatto non possono lavorare o sono obbligati a lavorare in nero a causa delle malepratiche della Questura, ma la Prefettura non vuole essere da meno nel rendere la loro vita impossibile. Con le ultime direttive impartite ai centri di accoglienza, la Prefettura ha infatti disposto che per qualsiasi ragione si passi una notte fuori dalla struttura, il giorno dopo non si riceve il pocket money di 2,50 euro, una miseria con cui però i migranti si procurano qualcosa da mangiare che sia diverso dal cibo scadente fornito nei centri. E che cos’è questo se non un ricatto per tenere i migranti chiusi nel centro di accoglienza e non esporli alla vista del cittadino  elettore? L’accoglienza non è un albergo stellato, ma un luogo in cui i migranti sono continuamente sotto controllo: devono firmare per certificare la loro presenza e gli operatori devono inviare la lista con le firme alla Prefettura a fine giornata. In alcune strutture, sono stati installati dei dispositivi per rilevare le impronte digitali per controllare meglio gli spostamenti dei migranti. Quei pochi migranti che riescono a trovare un lavoro, precario e spesso a chiamata, come per esempio accade nei magazzini della logistica dove si lavora soprattutto di notte, devono chiedere il permesso per allontanarsi dalle strutture nelle ore di chiusura. Per ottenerlo, però, bisogna mostrare il contratto di lavoro. Peccato che molti non possano averne uno, vista la precarietà dei loro documenti, e che quei pochi che lo ottengono non vogliano rischiare di presentarlo, perché ciò costituirebbe la prova che sono autosufficienti e non hanno più bisogno dell’accoglienza. Come se un lavoro occasionale e un salario da fame potessero renderli autonomi. Si rischia allora di essere cacciati via, perdendo anche il servizio di assistenza per i documenti che i centri d’accoglienza forniscono, data anche l’assoluta inaffidabilità dell’ufficio per richiedenti asilo della Questura”.

Prosegue il testo: “Non servono Salvini e la retorica del fascismo leghista a criminalizzare i migranti. Ci pensa già il razzismo democratico della Prefettura a trattarli come uomini e donne sospetti da controllare e a considerare gli operatori come dei poliziotti chiamati a impedire che i “neri” circolino liberamente per la città. L’accoglienza è una gabbia utile a rendere i migranti invisibili. Ma si è dimostrata anche un cattivo affare elettorale. Per questo, grazie anche ai cali degli sbarchi, la Prefettura sta cercando di smantellarla un pezzo alla volta, riducendone i numeri. Non a caso, le nuove direttive prefettizie prevedono anche che se un migrante passa due notti fuori dalla struttura viene automaticamente sbattuto fuori. In fondo, si tratta solo di un assaggio della clandestinità a cui le Commissioni territoriali condannano la maggioranza dei richiedenti asilo”.