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Culture / “Berretta Rossa”, una recensione critica

Continuano le presentazioni del libro che racconta la storia dei centri sociali bolognesi: il 30 marzo al Vanilia, il 6 aprile all’XM24, il 13 all’Arteria (Bologna), il 17 ad Imola. Ospitiamo una presentazione di Rudi Ghedini.

30 Marzo 2011 - 17:21

Scrive nell’introduzione Valerio Evangelisti, che per raccontare la vicenda della sinistra invisibile bolognese, per salvare alcuni fatti dall’insignificanza e dall’oblio, gli autori non potevano far altro che scegliere la strada della storia orale. Poi ricorda il motto della Rivoluzione Francese, e sottolinea la terza parola – Fraternità – la più trascurata, ma “quella che meglio definisce l’esperienza dei centri sociali. Laboratori di politica e cultura, certo, fucine di lotte e di forme alternative di svago, ma anche, in primo luogo, aggregazioni di individui che hanno deciso di aderire a un comune assieme di valori… A ben vedere, la sinistra antagonista si è sempre differenziata da quella istituzionale non tanto per questioni ideologiche (riforme o rivoluzione, elezioni o astensionismo, sindacato o organizzazione autonoma dal basso, e così via), quanto per la valorizzazione del momento esistenziale quale supporto a tutto il resto”. In altri termini, la crisi della sinistra istituzionale coincide e precipita con la liquidazione delle Case del Popolo.

La berretta rossa, nella prima metà del secolo scorso, identificava i birocciai, era il loro cappello. Divenne il nome del primo centro sociale occupato a Bologna, nell’aprile 1976: uno spazio vuoto da anni, davanti all’ingresso del cimitero della Certosa; lo sgombero con le ruspe avvenne alle prime luci del mattino del 14 agosto.

Seguono le storie di tanti altri spazi occupati: la palazzina di viale Vicini 18, l’hotel Bologna, davanti alla stazione, il collettivo Chourmo (dal titolo di un romanzo di Izzo) in via Mazzini 174, l’Isola nel Kantiere (sul retro dell’Arena del Sole), la Fabbrika in via Sebastiano Serlio, il primo il secondo e il terzo TPO (via Irnerio, viale Lenin – con la lunga fase del Bologna Social Forum – e via Casarini), lo spazio di via Ranzani 4 e poi l’ex mercato ortofrutticolo di via Fioravanti per quello che oggi si chiama Xm24. Si perde il conto delle migrazioni del Crash (Avesella, San Donato, due diversi spazi in via Zanardi, Donato Creti), si ricapitolano le vicissitudini del Livello 57 (da via dello Scalo 21 a via Muggia, sotto il ponte di Stalingrado, all’attuale sede in via Battirame); segue la storia di Bartleby, che entra ed esce ripetutamente da via Capo di Lucca 30 e ora sta in San Petronio vecchio, nell’ex magazzino della Croce Rossa; e si finisce con la parabola di Vag61, cominciata il 6 dicembre 2003 con l’occupazione dell’ex dopolavoro in Via Azzo Gardino 61 (v.a.g. è l’acronimo che rimanda a quell’indirizzo) e prosegue tuttora al 110 di via Paolo Fabbri.

Non si parla solo di spazi occupati. È divertente la storia del bar Zenit di via San Donato: fino al 1970 è il classico bar di periferia, poi diventa un punto d’incontro della sinistra extraparlamentare, quasi un centro sociale. I frequentatori sono malvisti da quelli del bar Corazza, a poche decine di metri: “Ci consideravano dissoluti, drogati e delinquenti. Quei vecchi ci odiavano. Non si rendevano conto che i veri emici del comunismo non eravamo noi, ma gli affaristi del loro partito”; a dirlo è un tizio che tutti chiamavano “Macchia”.

Il merito del libro è fuggire dalla saggistica. Ci sono Guazzaloca, Cofferati e Delbono, mancano le analisi socio-politologiche. Si tratta, piuttosto, di una forma di narrativa – un po’ sgangherata, in ogni capitolo cambiano stile, luoghi, personaggi – che ruota intorno a una serie di vicende esemplari. Storie vere con qualche personaggio romanzato. Dietro gli pseudonimi, a volte è facile riconoscere i personaggi reali: mi limito a “Gianola”, “Franberri”, “Giampiero Avvelenato”, “Melania” e “Igor il Tozzo”; mi resta la curiosità di capire chi sia “il Pauroso”. Nella trama spuntano figure intellettuali importanti quanto sottovalutate; da Gilberto Centi – che da mezzanotte all’alba parlava da Radio Caroline (1980) e in seguito fu l’artefice del primo censimento dei poeti bolognesi – a Marco Morri, fra gli animatori del primo TPO, fra il ’95 e il ’98.

Gran parte delle pagine si presenta come testimonianza orale. C’è persino un tentativo di intreccio amoroso, con la storia dei 3 TPO ricostruita attraverso l’incontro via-Facebook fra Gegio e Giorgia. I capitoli meglio costruiti mi sembrano quelli su Vinicio il pauroso e sul lattaio dell’Isola nel Kantiere.
Spero che il libro vada presto esaurito e l’editore investa su una ristampa. Sarebbe utile una piantina di Bologna con un segno sui luoghi di cui si parla. Non sarebbe male anche una tabella riepilogativa: cosa c’era prima e cosa c’è adesso nei luoghi di cui si parla (immagino che qualcuno abbia anche delle fotografie). Infine, un’altra tabella con le date delle occupazioni e degli sgomberi: quante volte, intorno a Natale o a Ferragosto?
Ora, quando si parla di centri sociali, alcune parole appaiono inevitabili – comunità, conflitto, giovani, illegalità, sperimentazione, solidarietà – e una più significativa di tutte le altre: autogestione. Non va di moda, parlare di autogestione, ed è un brutto segno: la considero una forma della politica più fertile e interessante delle primarie.

Rudi Ghedini

*Berretta Rossa. Storie di Bologna attraverso i centri sociali
di Serafino D’Onofrio e Valerio Monteventi, Pendragon, 2011